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“12 anni schiavo”, quei corpi torturati da Oscar: l’epopea di McQueen

Da vedere il dramma sulla schiavitù favorito agli Academy Awards con un meditativo Chiwetel Ejiofor, un isterico Fassbender e un sacrificato Pitt. Rivelazione Lupita Nyong’o. Classico, forse troppo.

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Chiariamo subito una cosa: nonostante pubbliche dichiarazioni a Venezia d’innamoramento per Michael Fassbender, contemplazioni voyeuristiche del suo magnifico corpo (“Hunger” e “Shame”), un cinema concentrazionario da videoarte testosteronica, il regista di colore Steve McQueen è “ufficialmente” etero. È sposato con la critica culturale Bianca Stigter, si è riprodotto. Nel suo corto “Bear” di dieci minuti due colossi di colore si osservano, si scrutano, cercano di sedursi, uno accenna una masturbazione velata da un gioco d’acqua. Tutti i suoi film sono intrisi di omoerotismo palpabile. Il corpo maschile è osservato con adorazione “arty”, ossia tendente alla contemplazione plastica, con sofisticate soluzioni estetiche. Nell’impressionante Hunger, Caméra d’Or a Cannes e premio Fassbinder, storia terribile del terrorista dell’Ira Bobby Sands recluso in un carcere, le violenze subite dal protagonista sono tradotte per immagini con un linguaggio formale da videoartista sublime (McQueen ha vinto il Turner Prize, è uno dei più quotati) che non esalta la verosimiglianza crudele degli atti di soprusi ma la forza estetica, la potenza, la crudeltà dominante del maschio su altri maschi.

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Nell’intrigante Shame sulla dipendenza sessuale di un uomo bellissimo – ancora il feticcio Fassbender – la scena madre è quella in cui il protagonista si ritrova in un club gay infernale dove un blowjob sembra l’ultimo peccato di un condannato a morte. Torturato McQueen. Poi, la svolta. Ecco “12 anni schiavo”, nove nominations agli Oscar, grande favorito (ma per la regia sarà dura: Gravity rischia di affossarlo). McQueen si pente: niente più videoarte, ricerca autoriale, sguardo diverso. È un film classico, tradizionale, il suo più bello, sulla schiavitù e in generale la condizione dei neri, tema forte a Hollywood (“Lincoln”, “Django Unchained”, “The Butler”, “The Help”). Prima c’erano stati Nascita di una nazione, Mississippi Burning, Spartacus, Manderlay di Lars Von Trier e molti altri. Che avevano detto già quasi tutto. Tratto da una storia vera, “12 anni schiavo” racconta di un nero musicista, Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor in un’interpretazione meditata e sofferta) che, negli anni precedenti la guerra civile americana, nato libero nel nord dello stato di New York, viene rapito e venduto come schiavo.

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Saranno dodici lunghi anni di torture e umiliazioni, soprattutto da parte di un feroce mercante di schiavi (ancora lui, Michael Fassbender, energico, isterico e bestiale). Poi arriverà un abolizionista canadese (Brad Pitt, sacrificato in un piccolo ruolo santificato). Sarà la libertà. Nel video “Static” realizzato da McQueen nel 2009, un elicottero volteggia intorno alla Statua della Libertà come un calabrone incuriosito: il tema della libertà e della sua assenza, la schiavitù imposta dal desiderio o dalla coercizione altrui sono da sempre il cardine della sua cinematografia. L’efferatezza di certe scene di tortura sembra volutamente ricercata ma non è affatto impressionante rispetto alle vertigini sadomaso delle frustate di “K” alias Jamie Bell in “Nymphomaniac”.

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“12 anni schiavo” è da vedere soprattutto per due motivi: per la rivelazione Lupita Nyong’o, candidata meritatamente all’Oscar, bravissima e commovente nel dare corpo alla contesa schiavetta Patsey, e per l’unica, magistrale scena del film, quella dell’impiccagione rallentata di Solomon, pura videoarte concettuale: Solomon cerca di divincolarsi dal cappio ma più si muove e più la corda stringe, mentre i ragazzini giocano intorno a lui.
“Mia moglie ha trovato il libro – ha dichiarato Mc Queen – e appena l’ho aperto non l’ho più lasciato. Ero stupefatto e incantato da questa incredibile storia vera. Si leggeva come Pinocchio o una fiaba dei fratelli Grimm: un uomo viene strappato alla sua famiglia e trascinato in un tunnel oscuro, in fondo al quale, però, c’è una luce”.
Da vedere.