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AIDS: NESSUNO È MAI GUARITO

Gli autori della prima analisi della storia dell’infezione in Italia lanciano un nuovo allarme: sempre più diffuso un nuovo ceppo mutante, difficile da combattere. Occorre non abbassare la guardia.

ROMA – E’ un virus nuovo quello che anche in Italia compare sempre più spesso nei laboratori dei ricercatori. Gli esperti lo definiscono genericamente non-b: comprende ceppi provenienti da altri Paesi, come Africa e Asia, o soggetti a una ricombinazione genetica, frutto di superinfezioni che si sovrappongono a quella originale. E quel che è peggio è che si presenta diverso da nazione a nazione, capace di dar vita a vere e proprie chimere virali: una sorta di mosaico di frammenti genomici di varia estrazione.
Ad alzare di nuovo la guardia nei confronti dell’HIV sono i prof. Ferdinando Dianzani, Giuseppe Ippolito e Mauro Moroni, autori del volume “AIDS in Italia 20 anni dopo“, edito da Masson. Presentato questa mattina al CNR di Roma, il libro condensa in 441 pagine la storia dell’infezione nel nostro Paese: dalla patogenesi, alla clinica, alla terapia, con interessanti digressioni in ambito bioetico, economico, psicologico e della comunicazione. «A preoccupare – sintetizza il prof. Dianzani ordinario di Virologia all’Università Campus Bio-Medico di Roma – è l’attuale eccesso di ottimismo, incoraggiato dai successi parziali ma ingiustificato nei fatti, che ha prodotto un pericoloso calo di attenzione. Purtroppo la realtà ci dice che la gente continua a infettarsi, che non si è ancora giunti alla guarigione di un solo caso e le speranze di realizzare un vaccino efficace sono tuttora legate più all’emotività che alla concretezza scientifica».
Sono due i dati incontrovertibili che riportano in primo piano la necessità di investire in prevenzione e informazione. «Dal 1996 ad oggi – sostiene il prof. Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma – è aumentato notevolmente il numero di casi con diagnosi di Aids alla prima osservazione [ovvero di casi in cui l’infezione viene accertata solo quando si è già trasformata in Aids conclamato, ndr]. Otto anni fa era il 20,6%, nel 2002 si era già passati al 50,7%. Questo ritardo ha cause diverse. In primo luogo molte persone possono contrarre l’infezione e non rendersi conto dei rischi corsi o non volere eseguire il test; ciò comporta che molti si sottopongono all’esame quando già l’infezione è in una fase avanzata. Ma altrettanti sono quelli che si presentano in grave ritardo ai centri specialistici malgrado siano venuti a conoscenza di un risultato positivo del test. Da un’analisi condotta su 968 pazienti arruolati in uno studio italiano è emerso che il 26% aveva fatto il test più di sei anni prima di aver effettuato la prima visita specialistica. Più precisamente, il tempo medio che intercorreva tra il primo test per HIV positivo e la prima visita in un centro era di circa 6 anni ed in questo periodo i pazienti, oltre ovviamente a non fare alcuna terapia specifica, non erano mai stati sottoposti ad esami di laboratorio, quali la conta dei linfociti CD4 o la viremia HIV, indispensabili per una valutazione dell’infezione».
Al ritardo di diagnosi si aggiunge poi questa sorta di plasticità dell’HIV e la sua capacità di mutare continuamente. «Se in Belgio e Olanda troviamo un tipo di virus prevalente nelle ex colonie – spiega il prof. Moroni, ordinario di Malattie Infettive e Tropicali all’Università di Milano – in Italia le variabili sono infinite: nei laboratori sono stati isolati ceppi di origine Africana, dell’Europa dell’Est, della Russia e del Sud Est Asiatico e la loro incidenza varia da una Regione all’altra, in base ai flussi migratori. In Toscana, per esempio, si è registrato un allarmante 30% di forme mutanti, che vuol dire un sieropositivo su 3 con un ceppo non-b; in Lombardia siamo al 12%».