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AnnoUno, la TV che vuole fare audience sulla pelle delle famiglie lgbt

Un pessimo esempio di TV, ieri su La7. E un’occasione mancata, anche per la comunità Lgbt.

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Se c’è una cosa che la puntata di AnnoUno di ieri sera ha decretato con certezza è che non è più rimandabile il momento in cui la comunità Lgbt italiana reclami e conquisti lo spazio di rappresentanza che le spetta negli spazi mediatici più seguiti, quelli televisivi. Perché duole dirlo, davvero, ma quello che avevamo immaginato sulla puntata dal titolo “Figli di gay?” è accaduto. Anzi, è accaduto anche di peggio. Era partita bene, con il servizio su una famiglia omogenitoriale con due papà e i loro figli, il più piccolo dei quali, alla domanda “Sai che alcuni pensano che un bambino debba avere una mamma e un papà?” risponde con l’unica risposta possibile: “questa è una domanda davvero cretina”. Lo abbiamo amato. Peccato che tutto il resto sia stato un salto indietro di 30 anni, fatto di terapie riparative , discussioni sul fatto che l’omosessualità si possa o meno curare, teoremi sull’origine dell’essere gay da ricercare nei traumi infantili (con tanto di “il 90 per cento dei gay è stato vittima di violenza sessuale”, sic!) e via discorrendo. I diritti delle persone Lgbt e delle loro famiglie? Solo di striscio. Del resto, se in studio a discutere ci sono un monsignore (il vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini), le cui posizioni in merito sono più che note, e uno scrittore contrario al matrimonio e all’omogenitorialità, invitato solo in quanto gay (come se questo fosse sufficiente, come ha fatto giustamente notare ieri Dario Accolla ), come altro avrebbe potuto svilupparsi la discussione?

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Un pessimo esempio di TV che partendo con buone intenzioni (come testimonia il richiamo a Rosa Parks e alla segregazione degli afroamericani negli anni ’50 fatto da Giulia Innocenzi all’inizio) ricalca, male, schemi già visti e si trasforma presto in una passerella delle peggiori teorie omofobe elevate al livello di opinioni plausibili, in un crescendo di cui, ad un certo punto, si è perso il senso e il filo logico. Qual era l’argomento? I diritti civili? Strano, perché la legge Cirinnà sulle unioni civili, solo per fare un esempio, è stata appena nominata un paio di volte e di matrimonio s’è parlato non in termini legislativi, ma come questione etica il cui interlocutore era Monsignor Sigalini incapace di argomentare le sue posizioni oltre al mantra de “il matrimonio è tra un uomo e una donna” e “un bambino deve avere una mamma e un papà”. Posizioni che sarebbero state facilmente smontabili, se solo dall’altra parte ci fosse stato un interlocutore in grado di farlo. Invece la “controparte” era lo scrittore Aldo Busi che, a parte un paio di battute sull’ingerenza della Chiesa nella politica, ha ripetuto più volte quello che pensa su matrimonio e genitorialità: lui è contrario al primo, e del secondo pensa che non sia accettabile “un gay che vuole fare un figlio per realizzarsi” (come se non lo facessero milioni di etero da sempre). D’altro canto, che altro avrebbe potuto dire? Sono quelle le sue posizioni, da sempre. Inutile che Andrea Rubera abbia tentato di fare notare che non si può pensare di essere contro l’omofobia e poi fare dichiarazioni del genere.

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Per questo, se l’obiettivo era perorare la causa delle persone LGBT, forse Busi non era l’ospite adatto. Tutto questo mentre sfilavano le facce e i discorsi intrisi di odio di Di Tolve, Adinolfi e perfino Joseph Nicolosi, il guru delle terapie riparative. Se non fosse stato per due interventi del filosofo Umberto Galimberti, un faro nel buio di quello studio, e per qualche battuta di un paio di ragazzi, sarebbe stato davvero difficile datare la trasmissione oltre il 1980. Per capirci, è come se domani andasse in onda una trasmissione sulla rappresentanza delle donne in politica e a discuterne si invitasse qualcuno che si chiede se le donne debbano davvero godere del diritto di voto. E, certo, c’era anche la coppia di gay cattolici (Andrea Rubera e il marito, appunto) con figli, orgogliosi della loro vita alla luce del sole che, però, tentavano di interloquire con Sigalini. Invano. Perché dall’altra parte ricevevano solo negazioni fino al “io i figli non ve li darò mai, neanche morto”. Da quando sono i vescovi a decidere chi debba avere i figli e chi no, e da quando è la chiesa cattolica l’interlocutrice sui diritti civili, non è chiaro. Non in uno stato che non sia etico o confessionale, naturalmente. E perfino Alba Parietti nel suo tentativo di contrastare le povere argomentazioni del vescovo è scivolata sull’accostamento tra omosessualità e pedofilia come su una buccia di banana.

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Livelli bassissimi di discussione in un confronto che non solo non ha portato alcun vantaggio alla battaglia di civiltà delle persone Lgbt, delle loro coppie e delle loro famiglie, ma che se possibile è stata anche dannosa. Cosa è rimasto agli spettatori di questa puntata di AnnoUno? Al di là del sondaggio su figli sì e figli no – e scusate se ve lo facciamo notare di nuovo, ma i figli delle coppie omosessuali esistono ed esisteranno: sarebbe il caso che di questo inoppugnabile dato si prendesse atto e si portasse la discussione sulle tutele, a meno che qualcuno non voglia mettere in discussione l’esistenza delle persone, chiaramente – proposto ad un pubblico probabilmente già schierato, chi ha guardato la trasmissione di Innocenzi, ieri, cosa porta a casa? L’idea che esistono persone convinte che l’omosessualità si curi e nessuna tesi scientifica che vi si possa contrapporre. Non uno psicologo, non un sociologo, non un sessuologo, nessuno in studio a spiegare che quelle sono solo pericolose suggestioni basate sui dogmi di una confessione, senza alcun riscontro nella realtà. Ecco, di questa TV, onestamente, non c’è bisogno. E perché non si sia più costretti ad assistere a spettacoli del genere, è necessario che la comunità Lgbt reclami gli spazi di rappresentanza che le spettano, anche sul piccolo schermo, per raccontarsi, per raccontare la realtà senza doversi affidare al primo opinionista prêt-à-porter nella speranza che non cada nel peggiore dei luoghi comuni. A tutto vantaggio del solo audience.

di Caterina Coppola