Il thriller dark La pelle che abito è il film più torturato e lacerante del grande Pedrito. Antonio Banderas è un chirurgo rapitore che si vendica su una ragazza-cavia, la rivelazione Elena Anaya.
Almodóvar cambia pelle ma non identità. E lo fa con un cupo thriller dark molto conturbante, dotato di un’anima oscura che non ha nulla di conciliato, stilisticamente algido e rigoroso, dalla livida e bellissima fotografia di José Luis Alcaine.
Con "La pelle che abito" il grande maestro Pedrito firma il suo film più torturato e lacerante, liberamente tratto dal romanzo di Thierry Jonquet Tarantola (Einaudi), in superficie distante anni luce dalle atmosfere melò che da sempre lo caratterizzano ma riconoscibile più che mai nelle sottotracce disseminate lungo la narrazione. Una sorta di aggiornamento
crepuscolare del mito di Frankenstein nell’era del modellismo dermo-plastico volto a sviscerare le pulsioni più negative della specie umana: la bestialità dell’istinto non filtrato dalla ragione, la ferocia dell’animo vendicativo, la malvagità del desiderio di possesso. Il Malefico Creatore è in questo caso un apparentemente irreprensibile chirurgo di gran fama, il dottor Robert Ledgard (un imperturbabile Antonio Banderas), ancora sconvolto dalla morte della moglie causata dalle ustioni riportate dopo un incidente d’auto. Lo stimato luminare è un Prometeo genialoide e ossessivo impegnato segretamente nella sperimentazione di una nuova pelle iper-resistente su una ragazza-cavia (la rivelazione Elena Anaya, dolce e caparbia allo stesso tempo) segregata nella sua lussuosa tenuta, El Cigarral, dove viene controllata a vista dalla fedele Marilia, depositaria di terribili segreti (Marisa Paredes, sempre superba).
Se nelle precedenti opere di Almodóvar il sesso è un mezzo per l’affermazione di sé, della propria libertà amorosa e delle scelte identitarie, fluttuante e modellabile in base alle leggi non scritte del desiderio, qui è invece solo un bieco strumento per imporre il proprio dominio violento sul prossimo, una condanna ineluttabile (non si può mai scegliere e, addirittura, viene imposto dal proprio carceriere), una fonte di sofferenza morbosa che si autonega il piacere: la scena post-chirurgica con la valigia colma di dildi "terapeutici" è quanto di meno erotico si possa immaginare.
E la straordinaria capacità del regista di innestare elementi grotteschi – l’apparizione del carnevalesco uomo tigre, le solite improbabili e iperboliche agnizioni famigliari, il gusto della provocazione gender – senza mai cadere nel ridicolo ma restando a un passo dalla vertigine dell’incredulità, rendono La pelle che abito molto più di un semplice esercizio di stile manierista: siamo piuttosto dalle parti dell’eclissi del postmoderno, in cui i dualismi corpo/anima, forma/sostanza e contenitore/contenuto si rimodellano continuamente senza rivelarsi mai, ma lasciando emergere l’unica vera ‘pelle’ che ci è consentito scrutare per comprendere i meccanismi vitali che brulicano lì sotto, ossia lo schermo cinematografico ‘tatuato’ dall’immagine in movimento.
Un film lunare, eccentrico, personalissimo. Da vedere assolutamente.
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