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#CinemaSTop: da vedere Janis e Much Loved; delude Life su James Dean

Nel valido doc di Amy Berg su Janis Joplin gli amori lesbici sono però solo accennati.

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Janis, valido doc sulla Joplin ma gli amori lesbici sono solo accennati
Buon documentario di stile tradizionale, con un notevole lavoro di miglioramento estetico del materiale di repertorio, su una leggenda del soul-blues-rock, l’americana Janis Joplin (1943-1970). Potente e raschiata voce beatnik, giunse al successo negli anni Sessanta come voce del gruppo Big Brother and the Holding Company (l’album Cheap Thrills è considerato una pietra miliare del rock psichedelico) e fu poi consacrata nello stardom musicale grazie ai suoi lavori da solista. La regista candidata all’Oscar Amy Berg ripercorre la vita di Janis linearmente, dalla nascita alla morte: l’adolescenza infelice a Port Arthur, dove era derisa ed emarginata dai coetanei (all’Università del Texas vinse pure un umiliante premio nel ‘concorso dell’uomo più brutto’), poi la scoperta del mondo hippy a San Francisco, le gioie del successo sempre bramato, il precipizio nell’alcol e nella droga. È un peccato, però, che le sue note storie d’amore al femminile si riducano a qualche affermazione della sorella Laura (“ci sono lati della sua sessualità non chiari”), di un’amante di colore (“andava con le ragazze non per scandalizzare ma perché si sentiva così in quel momento”) e dell’adorata Peggy Caserta con cui condivideva lo sballo (“ci facevamo di eroina per divertimento”). Ne esce comunque un esauriente ritratto intimo e pubblico allo stesso tempo, in grado di restituire sia l’atmosfera di entusiasmo liberatorio e un po’ naif degli anni Sessanta sia l’anima profonda di un’artista insicura e spaventata dalla solitudine, desiderosa di provocare per attirare l’attenzione su di sé (“Mi sono scopata chiunque”), a suo agio solo quando poteva scatenare l’elettrico carisma e le sue possenti doti vocali – “come un cane sciolto”, parole di Amy Berg – sull’inseparabile palco. La voce italiana che legge le lettere di Janis ai genitori è di Gianna Nannini. In una delle ultime, scriveva: “Cara famiglia, sono riuscita a superare il mio 27esimo compleanno senza accorgermene”. Sarebbe morta nove mesi dopo, il 4 ottobre 1970, per un’overdose di eroina in un motel di Hollywood.

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Much loved, convince lo scabro realismo delle prostitute marocchine
Non perdetevi questo intenso ritratto di quattro prostitute di Marrakesh, col pregevole merito di squarciare il velo sul maschilismo profondamente radicato nella società araba, sulla sottomissione della donna, sulla doppia oppressione sociale di chi vende il proprio corpo ed è costretto a subire gli abusi riservati alla condizione femminile. In patria ha fatto scandalo: le autorità marocchine hanno vietato il film, gli attori sono stati minacciati (l’attore che interpreta il ruolo del presunto gay è stato ferito al collo durante un’aggressione a Casablanca) e il regista Nabil Ayouch ora vive sotto scorta. Noha, Randa e Soukaina – a loro si aggiungerà una donna incinta, Hlima – sono tre prostitute d’alto bordo che partecipano regolarmente a feste orgiastiche in una villa di nababbi, costrette a camminare a quattro zampe e a subire violenze e umiliazioni (“Queste donne sono come queste carni nel piatto: morte”). Loro nel frattempo diventano una sorta di bancomat umano e foraggiano protettori, madri e figli che sostanzialmente le disprezzano. Nessuno le ama. Cercano quindi una sorta di solidarietà femminile tra loro e una certa rispettosa complicità solo con l’autista/pappone. Quando una di loro scopre che un cliente incapace di avere erezioni con lei è probabilmente omosessuale vedendo foto porno gay sul suo portatile, viene violentemente aggredita e decide, a modo suo, di reagire. Recitato con sorprendente adesione ai personaggi, colpisce per lo scabro realismo di coraggiosa denuncia (la scena dello stupro da parte del poliziotto è di cruda potenza). Nonostante una certa ripetitività e qualche lungaggine, Much Loved riesce a esplorare con lucidità un argomento tabù per la società araba, estendendo il discorso alla prostituzione gay: non mancano due garruli travestiti che battono e una cliente lesbica a cui una delle donne, per la prima volta, offre il proprio servizio erotico, scoprendo una certa delicatezza prima estranea al suo lavoro.
Da vedere.

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Delude il James Dean di Corbjin prosciugato da sottotesti gay nell’aneddotico Life
Sessant’anni fa a soli 24 anni moriva in un incidente automobilistico sulla sua Porsche 550 Spyder l’icona massima del ribellismo giovanilista americano, James Dean. Il regista olandese Anton Corbijn, specializzato in videoclip e ritratti intimisti di star (vedi il più riuscito Control), racconta nel deludente Life dell’amicizia tra il divo reduce dal trionfo di Gioventù bruciata e un fotografo dell’agenzia Magnum, Dennis Stock. I due si conoscono a un party di Nicholas Ray e faranno insieme un viaggio in Indiana, l’ultimo per Dean, nei suoi luoghi d’infanzia dove Stock conoscerà la famiglia dell’attore e realizzerà un celebre servizio fotografico pubblicato poi su LIFE con la celebre immagine della passeggiata sotto la pioggia a Times Square. Quello che è poco più di un aneddoto esistenziale non riesce ad avere il respiro per trasformarsi in un vero film e a momenti sembra di assistere a un cortometraggio trascinato per le lunghe. Dane DeHaan, nonostante l’impegno, non ha sufficiente carisma per calarsi in maniera convincente in un personaggio così fortemente cinegenico come James Dean e Robert Pattinson, dallo sguardo insolitamente spento, non comunica alcuna emozione. L’unica presenza palpitante è quella del grande Ben Kingsley nel ruolo del produttore Jack Warner che comprende subito la difficoltà nel gestire un divo bizzoso come Dean. La nostra Alessandra Mastronardi interpreta un amore da rotocalco di James Dean, l’attrice Anna Maria Pierangeli che gli americani chiamavano ‘Pier Angeli’, qui ridotta a poco più di un cameo. Qualsiasi sottotesto gay tra i due uomini è assolutamente bandito, al punto che privare il film della naturale ambiguità del fascino bisex di Dean toglie un potenziale appeal sensuale che l’avrebbe sicuramente reso più interessante.

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Black Mass, un irriconoscibile Johnny Depp nei panni di un pericoloso gangster degli anni Settanta
Radicale trasformazione fisica per Johnny Depp in Black Mass – L’ultimo gangster di Scott Cooper nel ruolo di Jimmy Bulger, criminale della Boston degli anni Settanta, occhi di ghiaccio, stempiatura profonda e voce cavernosa. Gangster irlandese capobranco di un’intera generazione di malavitosi, Bulger era il fratello di un senatore amico di un agente dell’FBI che lo convinse a diventare un prezioso informatore per garantirgli protezione e sconfiggere la concorrenza della mafia italiana, di cui predicava l’idea della ‘grande famiglia’. Fu coinvolto in almeno diciannove omicidi e implicato in crimini relativi al traffico di droga, alla sfruttamento della prostituzione, al gioco d’azzardo e alle lotterie truccate. Cast coi fiocchi: Benedict Cumberbatch (The Imitation Game), Kevin Bacon, Peter Sarsgaard, Joel Edgerton, Dakota Johnson e Juno Temple.