DALL'ORTO SUL PRIDE: "POSSIAMO MIGLIORARE" - dallorto1 - Gay.it Archivio

DALL’ORTO SUL PRIDE: "POSSIAMO MIGLIORARE"

Dopo il "j’accuse" di Roberto Schena, un altro protagonista dell’editoria gay, Giovanni Dall’Orto direttore della rivista "Pride!", propone alcuni punti di riflessione sul Pride milanese

Una riflessione sul riuscito Gay Pride nazionale di Milano mi pare non solo utile ma doverosa: per mesi abbiamo taciuto tutti sulle cose che non andavano, perché durante la tempesta si bada a salvare la nave: alla sorte del carico o alla rotta si penserà dopo… se si sopravviverà. Ma una volta superata la tempesta, fare il punto è doveroso, per non ripetere in futuro gli errori commessi e soprattutto per non perdere la rotta.
Ho apprezzato lo sforzo di mantenere un’immagine esteriore unitaria del Gay Pride (di qui in poi: GP), ed ho contribuito a questo sforzo rifiutando di alimentare le polemiche fini a se stesse. Lo spettacolo di quanto è avvenuto a Catania, con le due realtà gay che si delegittimano a vicenda (una della due s’è addirittura espressa contro il Gay Pride locale!) mi convince di avere fatto la scelta giusta.
Ma ora la tempesta è passata e il momento di fare il punto è arrivato.

Personalmente da un bilancio di quanto è accaduto individuo quattro punti deboli che vanno assolutamente migliorati. Questi quattro punti hanno a che fare con i rapporti:

  • coi locali,
  • coi massmedia,
  • con le PR,
  • col mondo politico.

1) Il rapporto col mondo dei locali.
All’interno di Arcobaleno (il coordinamento di collettivi che ha organizzato il GP) hanno fin qui convissuto due visioni inconciliabili del rapporto fra mondo gay politico e mondo gay commerciale. Far convivere le due anime è stato da un lato un miracolo di pazienza (costato molto sia dentro sia, soprattutto, fuori dell’Arcobaleno), dall’altro un freno al decollo del GP. Ricorderò fra tutte la polemica sulla sponsorizzazione da parte di Gay.it, e ricordo questo caso perché fra tutti è il solo ad essere stato reso pubblico, e non perché fosse l’unico.

Mi pare di non dire nulla d’eversivo osservando che è palese che all’interno di Arcobaleno esiste una frangia “dura e pura” che non vuole compromessi col mondo commerciale e che ha spinto a snobbare le possibilità e le offerte di sponsorizzazione.
Ciò, sia chiaro, non è un demerito (ognuno è libero di rifiutare, se crede, finanziamenti: nessuno di noi è in vendita), purché lo si rivendichi in modo chiaro e si argomenti tale scelta. Invece abbiamo visto scelte contraddittorie portate avanti alla chetichella e un po’ sì un po’ no, a seconda di quale ala prevaleva.
Per salvare la faccia su questo caos, che ha creato un sacco di confusione e molte defezioni tra i potenziali sponsor, uno dei portavoce di Arcobaleno ha fatto, il giorno dopo il GP, dichiarazioni in cui cercava di dare la colpa agli altri, cioè al mondo commerciale, che a suo dire “non ha capito l’importanza del Gay Pride e non l’ha finanziato”.
Falso. Nel corso del dibattito precedente il Pride a me che scrivo è capitato d’essere insultato come “direttore d’una rivista che definire commerciale è un complimento”. Il punto qui non è l’insulto, perché tante me ne han dette quante ne ho dette io e quindi pari siamo: il punto è che l’episodio prova che la parola “commerciale”, all’interno di “Arcobaleno”, è usata come insulto. E quanto ciò contribuisca a farsi "capire" dal mondo commerciale lo lascio giudicare a chi mi legge.

Che il mondo commerciale badi solo ai propri interessi è un dato che una scelta assemblea di marxisti (come quella dell’Arcobaleno) dovrebbe dare per scontato, così come lo do per scontato io stesso e come do per scontato che Arcobaleno dia per scontato.
Non do per scontato invece che da un lato Arcobaleno sottolinei il carattere sempre alienante del capitalismo (i comizietti dal palco sembravano più quelli del primo maggio che quelli del ventotto giugno) mentre dall’altro punti sul ben noto “cuore umano” del capitalismo, sulla sua famosa generosità, sulla sua celebre sensibilità… perché apra il portafoglio e scucia.
Ora, non pretendo che si legga Marx: mi basterebbe che si leggesse almeno suo “nonno” Adam Smith, che ammoniva: “Non mi aspetto che il mio macellaio mi procuri la carne ogni giorno per generosità, ma solo per il suo interesse”.
Invece “Arcobaleno” che ha fatto? È andato a mani vuote (cioè senza offrire nulla in cambio) dai locali commerciali a batter cassa e (particolare agghiacciante) mentre una parte lo faceva un’altra attaccava il mondo commerciale. Per questa strada non si arriva da nessuna parte.

Esistono tre modi di comporre gli interessi spesso non coincidenti di mondo commerciale e di mondo politico gay:

  1. Scinderli. Ognuno per la sua strada. Il che, nel caso del GP, implica quanto è accaduto a Parigi e Londra. I locali organizzano una festa/parata (priva di contenuti politici) che attira 300.000 persone, e i gruppi gay organizzano, a parte, una manifestazione, che ne attira 15.000-20.000. Di fatto nella diversa partecipazione di Milano e Verona di quest’anno c’è già in nuce tale tipo di divisione. La linea tratteggiata esiste già, basta solo ritagliare seguendo la linea ed ecco fatto. Vogliamo davvero farlo? Sospetto che qualcuno preferirebbe di sì (e aggiungo subito che giudico idiota questo modello).
  2. Armonizzarli. Più facile a dire che a fare. “Commerciante” è troppo spesso sinonimo di “ottuso”, come ben so dirigendo una rivista che definire commerciale è un complimento. Ciò detto e riconosciuto, il sangue del mondo gay, piaccia o no, scorre nelle vene del mondo commerciale. Come dimostra il fatto che i gruppi che tuonano contro il commercio o campano d’iniziative commerciali, o sognano “sponsorizzazioni” a 360 gradi.
    Dall’altra parte, con un movimento gay che non ha ben chiari quali siano i suoi obiettivi non è propriamente agevole trattare. Eppure il mondo commerciale, da solo, non può vivere: fare i commercianti nel mondo gay implica subire continui attacchi politici, per rintuzzare i quali occorre la risposta e l’organizzazione di un movimento politico. Siamo condannati ad andare d’accordo? Parrebbe di sì…
    Non è detto che questa difficile armonizzazione riesca: è molto più probabile che riesca un compromesso fra interessi non sempre limpidi e non sempre coincidenti. Però laddove ci si riesce, mettendo assieme movimento gay e mondo commerciale come nel “Sydney mardi gras”, il risultato è spettacoloso.
  3. Ignorarli. Ognuno per sé, dio per tutti, e poi fingiamo di aver lavorato insieme. È il metodo usato quest’anno per il GP di Milano. Il fatto che lo si sia usato implica che è usabile, ma il problema è: fino a quando? Prima o poi la situazione evolve verso uno dei due schemi di cui sopra. E visto che Milano è la città con la più forte realtà commerciale gay dell’intera Italia, temo che l’evoluzione verso lo scenario 1 sia più probabile di quella verso lo scenario 2. Siamo ancora in tempo per evitarlo, sia chiaro. Ma quest’anno i locali hanno visto 50.000 persone in città, e nel lor petto ha cominciato a battere forte forte il registratore di cassa.
    E se qualcuno s’illude di ottenere il prossimo anno una “tangente” per il solo uso del “marchio ufficiale” dell’Arcobaleno, si sbaglia di grosso: già quest’anno abbiamo avuto feste “non ufficiali”. L’Arcobaleno non ha i mezzi, né legali né d’altro tipo, per impedire che la festa venga gestita in proprio dal mondo commerciale, senza sponsorizzare nessuno. Anche supponendo di perdere in tal caso i 5.000 duri e puri di Verona (ma non ci conterei…) 45.000 potenziali clienti sono pur sempre uno scopo nella vita. Per qualcuno…

2) Il rapporto col mondo dei massmedia.
Qui parlo di qualcosa che conosco in prima persona. La gestione del rapporto coi massmedia da parte di Arcobaleno è stata, diciamolo pure, disastrosa. Mi sono trovato in frenetici giri di telefonate solo per avere i dati indispensabili per pubblicizzare l’iniziativa: volevo pubblicizzarla, ma non riuscivo!
Da parte loro i compagni di Arcobaleno si lagnavano perché io non andavo alle loro conferenze stampa, credendo forse che i giornali abbiano un pozzo di san Patrizio di soldi e tempo che permette di mandare inviati ogni volta che un passero saltella.
“Ma cosa credi, che adesso dobbiamo anche stare qui a inseguire i giornali?”, mi han chiesto. Esatto, bravi: “adesso dovete anche stare qui a inseguire i giornali”, se volete che parlino di voi. Riconosco che questa regola non vale per tutti, ma solo per chi non possieda tre reti televisive e non ne controlli altre tre.
Ma se non siete in questa condizione, allora siete voi che dovete inseguire i giornali, perché ve lo sognate che i giornali inseguano voi. I giornali borghesi inseguono solo il denaro e il potere, non l’antagonismo e la democrazia. Voi che siete tanto lucidi nell’analizzare i limiti del dominio borghese cascate daccapo nell’illusione che la stampa borghese sia democratica, aperta, interessata alle informazioni?

La mentalità con cui Arcobaleno ha gestito il servizio stampa implicava due difetti, uno leggero ed uno no.

Il primo era l’inesperienza profonda del modo in cui funzionano i massmedia, e questo è lieve, perché l’esperienza maturata quest’anno dovrebbe mitigare il problema in futuro.
Ciò non toglie che abbiamo visto ritardi inaccettabili. Avevo da mesi sulla scrivania il programma stampato del GP di Vienna, e ancora non sapevo nemmeno la data esatta di quello di Milano. Se c’è una lezione emersa da questo GP, è che non ci si può muovere, all’italiana, due settimane prima. Certe cose si organizzano un anno per l’altro: gli americani organizzano già ora eventi che si terranno fra tre o quattro anni.
Ripeto: quanto è successo quest’anno era scusabile con l’inesperienza. Ma il prossimo anno questa scusa non ci sarà più. E quindi ci sarà meno indulgenza, da parte di tutti. Me compreso.

Il secondo era il disprezzo del ruolo dei massmedia, e questo è grave: molte volte ho avuto l’impressione che si desse o per scontato o per irrilevante lo spazio sui media gay e non, tant’è vero che ci si è anche preso il lusso di insultare quelli gay.
Sì: all’interno di Arcobaleno c’è un’ala che pensa che dei massmedia si può fare tranquillamente a meno: "ci bastiamo da soli". È la stessa ala che preferisce avere pochi manifestanti ma "buoni" ( = molto politicizzati), piuttosto che tantissimi ma poco politicizzati. Non sta a me dire se abbia o no ragione.
A me resta solo da fare notare che, ammettendo per un attimo che gli screzi con la rivista “Pride” siano dovuti in tutto e per tutto al mio riprovevole carattere, rimane comunque da chiarire perché Arcobaleno abbia avuto screzi anche con “Babilonia”, che li ha ignorati, con “Guide”, che li ha attaccati pubblicamente, e con “Gay.it”, con cui la polemica è ben nota. Cioè con l’"universo mondo" dei periodici gay. Evidentemente il problema non era dovuto al mio carattere.
Ragazzi, dove pensate di arrivare su questa strada?

3) Il rapporto con le PR.
Questo punto è il proseguimento del precedente. Ed è paradossale che in un mondo in cui metà delle persone vuole fare il fotomodello e l’altra metà il pi-erre, la gestione delle “pubbliche relazioni” sia stata meno che primitiva.
Già l’esistenza di 4 portavoce 4 era più adatta ad un circo con 6 elefanti 6 e 12 scimmie 12 che ad un GP. Con chiunque si parlasse, si era certi che ciò che veniva concordato da un portavoce venisse prestamente smentito da almeno uno degli altri tre. A me è successo così… e non solo a me. 4 portavoce sono un lusso che nessuno si può permettere, specie se sono costantemente in disaccordo.

Ci sono locali che volevano sponsorizzare il Pride e che non ci sono riusciti per l’incredibile comportamento di chi, ricevuta una telefonata per concordare la cosa, non faceva nessuna telefonata di risposta. Qualcuno pensava, evidentemente, o che le sponsorizzazioni non importassero (e che qualcuno la pensasse davvero così lo ha provato l’incidente di Gay.it) o che i locali avessero il dovere di inseguire Arcobaleno, aspettando i suoi comodi.
“E cosa devo fare, adesso, stare dietro ai locali, uno per uno?”, mi è stato ribattuto quando facevo presente la cosa. Esatto, bravi: adesso dovete stare dietro ai locali, uno per uno, perché le PR sono esattamente questo, né più, né meno. Oltre tutto, poi, l’esperienza insegna che quando si cerca di fare scucire soldi le attenzioni vanno semmai decuplicate. Invece qui sono stati perfino convocati di sera incontri coi locali, senza nemmeno ricordarsi che di sera i gestori dei locali lavorano. E poi, quando non è venuto nessuno, già geremiadi contro la loro “insensibilità”…
“Ma non abbiamo tempo per fare queste cose”. OK, questo argomento lo capisco. Abbiamo tutti una sola vita, a cominciare da me stesso. Ma stando così le cose, perché ora sento parlare di fare un GP a Milano ogni anno? Andiamo. I locali i soldi per fare fare il lavoro ai loro PR li hanno. Qualcuno immagina come andrà a finire, allora? Ricordate: siamo ancora in tempo per evitarlo. Siamo ancora in tempo.

4) Il rapporto col mondo politico.
Questo GP si è differenziato da quello di Roma per la scarsa traccia che ha lasciato sulla società. Tempo due giorni, e non se ne parlava più. Come una qualsiasi fiera campionaria di Milano: apre, la gente ci va in folla, poi chiude e avanti la prossima, e non se ne parla più per un anno. Pessimo risultato.
Non meritava tale sorte un GP da ben 50.000 persone, il quintuplo dell’epoca pre-World pride (anche se i comunicati stampa del "Mario Mieli" a Queer-it le abbassano a 30.000: già ricominciamo con queste miserie umane?).
Purtroppo Milano, come tutta la Lombardia, manca delle persone capaci di capitalizzare politicamente perfino gli indubbi successi. Non sto parlando dei componenti gay dei partiti che sgomitano al momento del comizio: di quelli ne abbiamo talmente tanti che abbiamo sentito gli appelli perché scendesse un po’ di gente dal palco, che rischiava di crollare sotto il peso eccessivo (incidente quanto mai simbolico!). Purtroppo però queste persone non sono in grado di portare all’incasso il successo perché non sono componenti di un movimento che vanno a portare le proprie istanze nei partiti di riferimento, bensì quasi sempre iscritti a partiti che vengono a fare propaganda alla loro linea di partito all’interno del GP. Lo si è visto in modo chiarissimo alla fine, con i comizietti finali.

Si noti che la lottizzazione partitica s’è spinta a tal punto che incredibilmente sul palco non si voleva lasciare parlare l’Agedo, l’associazione dei genitori e parenti di omosessuali (il cui intervento si è poi rivelato il più applaudito di tutti) perché non faceva parte di nessun collettivo. Cioè perché non era in quota per nessun partito. Per fortuna ha prevalso il buon senso, anche grazie all’insistenza dell’Arcigay nazionale, ma incidenti di questo tipo mostrano a quale punto sia arrivata ormai la deriva partitocratrica anche all’interno del movimento gay.

Per portare all’incasso i successi come quello del GP milanese occorre una classe politica gay che senta il dovere di rappresentare in prima fila i bisogni dei gay, oltre ad altri temi, come sta già facendo Franco Grillini (che però da solo non basta).
Non sto dicendo che tutti i gay debbano ragionare così: ognuno di noi ha la sua gerarchia d’interessi e di priorità. È lecito che alcuni di noi, fra cui me, si sentano prima militanti gay e poi militanti del loro partito, e che altri invece ragionino in modo inverso. Ciò è giusto e normale.
Resta però il fatto che oggi come oggi Milano è monopolizzata da gay “funzionari di partito”, che ragionano prima da membri dei loro rispettivi partiti o chiese (in senso religioso, non metaforico) e poi, solo poi, anche da difensori dei diritti dei gay.

Ovviamente questo non è un difetto del solo Arcobaleno. Il comunicato stampa del gruppetto bolognese “Visibilia”, che annunciava che non sarebbero venute al GP di Milano (nessuna di loro tre), perché era presente ”Gay Lib”, gruppaccio gay fascista maschilista e schifoso, ha mostrato che il settarismo è un problema generale. Che però diventa un problema anche milanese quando circola, due giorni dopo, una mail di un componente del GLO di Milano (che di Arcobaleno fa parte, proprio come Gay Lib) che dice "avete fatto proprio bene avete ragione voi".
Ebbene, qui m’arrabbio. Se si vogliono organizzare altri GP, prima bisogna decidere se la priorità sia la rivoluzione comunista oppure siano i diritti dei gay. Sono due obbiettivi altrettanto nobili, però non si possono conseguire assieme. Che qualcuno opti per la rivoluzione comunista mi va benissimo. Però, basta demonizzare chi opta per i diritti dei gay! Se io avessi dato retta a quelli che quando avevo 18 anni mi dicevano che per avere i miei diritti avrei dovuto aspettare la rivoluzione… campa cavallo…

Il GP è il momento in cui si ritrovano e si mostrano coloro che vogliono il cambiamento sociale per la minoranza GAY. Quel giorno possono stare fianco a fianco l’"Unione atei agnostici e razionalisti" e il "Gruppo del Guado", lesbiche separatiste e macho leather, riformisti e rivoluzionari, comunisti e liberali, riviste fra loro concorrenti e locali idem. È un momento di unione. Il giorno dopo, divisi come prima, ognuno col suo progetto diverso, ma quel giorno siamo uniti a mostrare cosa possiamo fare assieme.
E invece gli esercizi di settarismo partitico si sono sprecati. Ma stiamo scherzando?

Conclusione
Questo GP è stata una prova generale. Doveva servire anche a una città, Milano, che non ha faceva manifestazioni da secoli, ad imparare come farle. Credo che molte persone l’abbiamo imparato, e nel modo più duro e difficile: buttandosi in acqua e cercando di non morire affogate.
Ma è auspicabile che assieme alle cose da fare abbiamo imparato anche quelle da non fare più. Di sicuro io ne ho imparate molte…

Ovunque si faccia il Gay Pride nazionale nel 2002, Milano ha già ricevuto una bella scossa ed ha visto coi suoi occhi che "si può", che "noi, anche". Per noi milanesi questo è uno spartiacque, e ne sono felice.
Figuriamoci quanto più felice sarei se in futuro riuscissimo ad organizzare altre iniziative dopo avere corretto gli errori e i limiti che ho appena elencato.

Giovanni Dall’Orto
direttore del mensile gay "Pride"
giovanni.dallorto@iol.it

di Giovanni Dall’Orto