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DONNE E AIDS

A parità di carica virale i trattamenti farmacologici sulla donna spesso risultano meno efficaci che sul maschio.

Le donne con infezione da Hiv hanno un livello minore di virus nel sangue rispetto agli uomini allo stesso stadio di progressione della malattia ma, a parità di carica virale, la donna spesso risponde diversamente ai trattamenti farmacologici che risultano meno efficaci che sul’uomo e si ammala più velocemente. Durante il V Congresso internazionale sulle terapie farmacologiche dell’infezione da Hiv che si è tenuto a Glasgow, cause biologiche, particolare vulnerabilità delle donne al virus Hiv e diversa risposta ai trattamenti, sono stati al centro di un confronto tra gli esperti presenti secondo cui ci sono ragioni biologiche che suggeriscono un differenza tra i due sessi. Infatti, diverso è l’assorbimento dei farmaci nel flusso sanguigno, nell’attività dell’enzima P450 e nei cambiamenti ormonali che seguono la comparsa del ciclo mestruale.

Per questo gli addetti ai lavori ritengono necessario creare un percorso diagnostico e terapeutico mirato alle esigenze delle donne sieropositive. Per esempio, i dosaggi degli attuali

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trattamenti antiretrovirali, secondo gli esperti, spesso non tengono conto della differenza di peso fra maschi e femmine, da ciò ne deriva che in questo modo le donne assumono quantità di farmaco superiore alla loro necessità, in grado di aumentare il peso degli effetti collaterali. Inoltre, rispetto agli uomini, pare che le donne abbiano un rischio tre volte maggiore di subire reazioni avverse ad alcuni farmaci come il ddI.

Le cifre parlano chiaro. Oggi le donne rappresentano quasi la metà delle nuove infezioni da Hiv registrate in tutto il mondo. Degli oltre 33 milioni e mezzo di persone che vivono con la malattia, quasi 15 milioni sono donne, e il numero delle morti al femminile ha superato quello dei maschi: 100 mila in più nel 1999.

Gli esperti giustificano queste cifre con ragioni sicuramente economiche, sociali e culturali, ma dopo aver ricordato le cause biologiche dell’esposizione delle donne al virus, auspicano l’adozione di strategie farmacologiche mirate non solo a curare meglio, ma soprattutto a ridurre gli effetti collaterali per le pazienti, anche nell’eventualità di una futura gravidanza. Per quanto riguarda l’Italia, l’epidemiologo Enrico Girardi (kwsalute) sostiene che la crescita degli ultimi dieci anni è stata di 3/4 punti percentuali e che l’aumento dei casi riguardi più sensibilmente le nuove infezioni dove un terzo sono donne.

In Africa, invece, ci sono oggi:

16 Paesi in cui più di un decimo della popolazione adulta tra i 15 e i 49 anni è affetto da HIV;

7 Paesi – tutti nel cono meridionale del continente – ove almeno un adulto su cinque convive con il virus.

Con la forza di una calamità, solo l’anno scorso, l’AIDS ha mietuto in queste regioni due milioni di morti,

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mentre conta un totale di 23 milioni di sieropositivi: in Botswana, ha l’HIV il 35,8% degli adulti, ed in Sudafrica il 19,9%. Con poco più di 4,2 milioni di persone affette dal virus, il Sudafrica è il paese con il più alto numero di persone sieropositive al mondo.

Un’epidemia, che se non sarà fermata, nel giro di qualche anno dimezzerà la popolazione dell’intero continente. Lo scenario appare ancora più grave e disperante laddove si consideri la maggior complessità dell’impegno necessario a combattere la malattia in questi Paesi. In Africa, l’AIDS chiama in causa l’intera società e la sfida non è solo tecnica: lottare contro il virus significa contrastare tradizioni culturali e comportamenti radicati, come una vita sessuale precoce e promiscua, come la diffidenza, se non il rifiuto, di utilizzare il profilattico.

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di jaguar