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Due donne unite a Roma. Una sola però è “visibile”

Unione simbolica fra due donne a Roma nella sede dell’associazione Dì Gay Project. Una sola di loro, però, è disponibile per le foto. E’ giusto? L’associazione: lavoriamo senza esibizionismi.

Daniela e Silvia sono una delle coppie che per ufficializzare la loro unione si sono rivolte al Dì Gay Project, l’associazione romana fondata e presieduta da Imma Battaglia che da qualche tempo ha predisposto, tramite i suoi legali, una scrittura privata intitolata "Atto d’Amore". Nulla a che fare con un vero matrimonio quindi ma la scrittura stabilisce di fatto un accordo in campi basilari come la mutua assistenza, la malattia di una delle due parti, l’abitazione comune e la proprietà dei beni mobili.

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Le sentenze dei tribunali di quest’anno ci ha ricordato quante siano le coppie gay e lesbiche che vanno all’estero per sposarsi o unirsi civilmente ed in alcuni casi per avere anche dei bambini. Diverse di queste famiglie scelgono poi di intraprendere una lunga battaglia legale per veder trascritto il loro matrimonio nel nostro paese. Curioso di capire le ragioni di una scelta diversa. Ne abbiamo parlato con Silvia, una delle due spose, che sembra molto entusiasta della possibilità di poter ufficializzare, seppur simbolicamente, l’unione con Daniela.

Mi racconta di aver conosciuto il DGP tramite una sua amica e di essere arrivata in sede tramite contatti diretti con Imma Battaglia su Facebook. Le chiedo cosa ne pensi di chi si sposta fuori dall’Italia per sposarsi e se loro abbiano volutamente scelto una strada diversa. Il primo ostacolo di cui ci parla è quello economico: «Penso che poter intraprendere quella strada sia stupendo. Per quanto ci riguarda è stato soprattutto un problema di tipo economico perchè sposarsi all’estero costa molto e le procedure per arrivare alle nozze sono complicate e richiedono molto tempo. Speriamo di dare un buon esempio per chi non ha la possibilità di intraprendere quel percorso.»

Chi si sposa all’estero non deve infatti sostenere solo le spese di un viaggio più o meno lontano ma anche quelle legate alle condizioni per poter celebrare il matrimonio imposte dal paese "ospitante". Per Antonio e Mario, l’ormai celebre coppia oggetto della sentenza in Cassazione, era stato ad esempio l’affitto di un appartamento che permettesse ad almeno uno dei due di avere la residenza all’Aja, altro onoreoso capitolo, questo del percorso giudiziario, da affrontare insieme alle altre peripezie.  

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Soldi a parte, quello che in pochi sono ancora oggi disposti a pagare è il prezzo che un percorso di quel tipo richiede in termini di visibilità: non a caso il secondo target a cui lo strumento messo a punto dal Dì Gay Project sembra rivolgersi è quello di chi non sempre è disposto ad esporsi pubblicamente trasformando la propria battaglia personale in una battaglia di movimento. L’associazione precisa di muoversi e lavorare "…nel pieno rispetto della privacy delle persone, senza esibizionismo…". Ma un matrimonio, un’unione civile, così come una qualsiasi celebrazione simbolica pubblica di chi verosimilmente ambisce a poter accedere un giorno all’istituto, non è forse la più grande e bella forma di "esibizionismo" che esista? Sposarsi non significa in primo luogo essere felici di dichiarare al mondo il proprio amore per l’altra persona? Secondo Silvia “Significa in primo luogo annunciarlo a noi stessi. ” ed il resto del mondo in un’occasione simile non può che essere spettatore.

Qualcuno potrebbe pensare ad una contraddizione, un passo indietro rispetto agli anni spesi nella lotta per la visibilità, che in primo luogo nel nostro paese significa un non banale "esistiamo e che lo vogliate o no dovete occuparvi di noi", di cui la stessa Battaglia è stata per tanti anni protagonista. Di certo vien da chiedersi  se, fatte salve le indiscutibili scelte personali su visibilità e coming out, oggi un’associazione LGBT invocando i temi della privacy e dell’ "esibizionismo" non faccia il gioco dei nostri stessi detrattori che, forse non del tutto a caso, per mettere a tacere le nostre rivendicazioni usano proprio quegli stessi argomenti. O forse bisognerebbe domandarsi se, dopo aver saputo che oltre il 44% degli italiani è favorevole al matrimonio gay ed oltre il 60% alle unioni di fatto, le lesbiche ed i gay italiani siano altrettanto maturi e se il DGP non stia facendo altro che rendersi interprete di una parte di comunità che non condivide a pieno obiettivi e modalità di chi invece della visibilità ha fatto uno dei fondamenti della propria militanza.

di Andrea Contieri