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Gay Pride in città santa

Gerusalemme ha avuto il suo Gay Pride. Silenzioso e di venerdì, perché lì, di sabato, non si muove una foglia. Palestinesi assenti e un parcheggio da rifare. Cronaca di un Pride atipico.

Nessun carro, pochi canti e molti soldati. Il Gay Pride tenutosi ieri

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a Gerusalemme è stato così: silenzioso e sorvegliato costantemente dalle forze dell’ordine. I quasi sei mila manifestanti (una cifra non ridicola se si pensa a Gerusalemme, Città Santa) hanno sfilato ieri per le strade della città, seguendo un percorso rigorosamente transennato, a prova di scontro. Nonostante siano già passati otto anni dalla prima marcia LGBT, solo due anni fa alcuni ultraortodossi hanno fatto irruzione nel corteo, accoltellando tre manifestanti. Quindi, la presenza dei militari è servita anche ad evitare questi "inconvenienti". Gli stessi organizzatori del Gay Pride, membri di Jerusalem Open House (JOH), prima associazione LGBT fondata nella Città Santa nel 1997, hanno deciso di farsi scortare dai militari dall’ufficio fino all’inizio della marcia.

I problemi che devono affrontare i giovani LGBT a Gerusalemme

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riguardano in primis l’aspettativa della società verso di loro, e la componente religiosa è uno scoglio non facile da affrontare e superare. Nonostante stessero marciando liberamente alla luce del sole, alcuni ragazzi e ragazze hanno sempre rifuggito le telecamere o le macchine fotografiche, rifugiandosi dietro cappelli, sciarpe o grandi occhiali. Dall’altro lato, qualcosa sta iniziando a cambiare. La presenza più piacevole all’interno del corteo è stata sicuramente quella di due soldati appena maggiorenni, che hanno sfilato indossando l’uniforme mano nella mano, sventolando una piccola bandiera arcobaleno. L’altro gruppo che, se così si può dire, ha fatto coming out, è stato quello dell’associazione Tehila, composto dai genitori dei ragazzi e delle ragazze LGBT israeliani. Uno di loro portava un cartello con scritto "Mio figlio è gay… Quindi??".

Fra bandiere di Israele e quelle arcobaleno, il vessillo palestinese

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non è mai apparso. Se al Gay Pride di Tel Aviv l’assenza del popolo palestinese poteva essere giustificata dal fatto che materialmente questo non può recarsi in Israele, a meno che qualcuno non abbia un permesso speciale o di lavoro, a Gerusalemme la questione è prettamente sociale. Nel 2001, da Jerusalem Open House è nata Al Qaws – l’Arcobaleno, composta da soli LGBT palestinesi. Nel 2007 questa associazione ha deciso di diventare indipendente e di iniziare un percorso separato rispetto a JOH. I problemi che devono affrontare gay e transgender in Palestina e Israele, siano questi israeliani, ebrei, arabi o palestinesi, hanno tutti radici per lo più nella religione o nella cultura, due ambiti che raramente in questi Paesi si riesce a distinguere. Anche i palestinesi, come gli israeliani, devono lottare contro il retaggio culturale che è contrario a questo tipo di "devianze". A differenza degli israeliani però i palestinesi devono lottare anche su un altro fronte: quello dell’identità nazionale. Prima di essere gay, lesbiche, bisessuali o transgender, i palestinesi devono lottare per essere palestinesi, mancando di un’identità nazionale stabile in cui riconoscersi.

Sicuramente la paura di essere scoperti non li ha aiutati a scendere in strada e marciare per i loro diritti. Anche alla fine del Gay Pride, una volta arrivati al giardino HaAtzmaut, dove si è tenuto l’happening finale, dal palco hanno preso parola solo esponenti LGBT israeliani: fra gli altri Nitzan Horowitz, membro della Knesset, apertamente omosessuale; e Mike Hamel, presidente di Agudah, la prima associazione LGBT israeliana fondata nel 1975. Alla domanda su quali fossero le impressioni a caldo circa la marcia appena conclusa, Mike ha risposto : "Quest’anno abbiamo marciato in pace senza scontri con gli ultraortodossi e ne siamo felici. Finalmente qualcosa sta cambiando. Da alcune settimane hanno una nuova missione: far chiudere un parcheggio a Gerusalemme. Forse hanno capito che è più facile spiegare ai loro figli cos’è un parcheggio piuttosto che spiegargli cos’è un omosessuale… Ma a noi sta bene così!". E speriamo tutti che gli ultra ortodossi non cambino idea…

di Michela Chimenti