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Graham Moore, Oscar per The Imitation Game: “Siate strani, diversi!”

“Turing non è mai salito su un palco: un’ingiustizia”. E poi: “Stay weird, stay different”

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Moore. Un cognome, due nomi: Julianne e Graham. Nessuna parentela. Entrambi hanno vinto un Oscar in due dei momenti più intensi dell’87esima cerimonia di consegna degli Academy Awards bagnata dalla pioggia, ieri sera, al Dolby Theatre di Los Angeles. Sono le 5.33 ora italiana quando la matronale Oprah Winfrey annuncia il vincitore della statuetta per la migliore sceneggiatura non originale: è lo scrittore 33enne Graham Moore (fino a ieri sera più noto come figlio di Susan Sher, capo consulente di Michelle Obama) per l’adattamento dell’intenso biopic “The Imitation Game” di Morten Tyldum sul geniale matematico gay Alan Turing. Sul palco si materializza un ragazzino minuto, all’apparenza timido e fragile, che potrebbe averne dieci di meno. “Grazie Oprah, grazie alla famiglia di ‘The Imitation Game’ – ha esordito entusiasta Moore -. Alan Turing non è mai riuscito ad arrivare su un palco come questo e osservare queste bellissime facce davanti a sé. È una cosa ingiusta. Quando avevo sedici anni ho cercato di uccidermi perché mi sentivo strano, diverso, come se non appartenessi al luogo dove mi trovavo. Invece adesso sono qui. Vorrei che questo momento fosse per tutte quelle persone che si sentono strane. Continuate a essere diversi. Quando sarà il vostro turno di salire su questo palco, diffondete il messaggio. Grazie a tutti”. E il suo “Stay weird, stay different”, più mantra gay in stile ‘pelle di rinoceronte’ alla Tim Cook che slogan testamentario alla Steve Jobs, diventa subito virale.

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Segue una commossa standing ovation e la sua omonima, Julianne, ha il viso rigato dalle lacrime (ma è in buona compagnia: piange anche Keith Urban, marito di Nicole Kidman, insieme ad altre star). Delle otto nominations iniziali, “The Imitation Game” dovrà accontentarsi proprio di questo Oscar. Venti minuti dopo è la volta dell’omonima Moore, Julianne, che stringerà la prestigiosa statuetta per l’indimenticabile ruolo della professoressa di linguistica malata precoce di Alzheimer nel toccante “Still Alice” della coppia gay Richard Glatzer e Wash Westmoreland (del primo ricorda la discesa nell’incubo di un’altra malattia terribile, la SLA, che non gli ha però impedito di dirigere il film con le forze rimaste). Non c’è storia per gli attori protagonisti, categoria in cui trionfa Eddie Redmayne dopo aver vinto tutto il conquistabile, dai Bafta ai Golden Globes, per l’onesto biopic “La teoria del tutto” sulla vita dell’astrofisico Stephen Hawking. I veri sconfitti della serata risultano in definitiva la dolente odissea del soldato di “American Sniper” diretto da Clint Eastwood – solo un Oscar per il montaggio sonoro – e il coraggioso esperimento “Boyhood” di Richard Linklater sull’evoluzione in tempo reale di una famiglia americana, durato dodici anni, che si deve accontentare della migliore attrice non protagonista Patricia Arquette.

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Il resto della passabile cerimonia – ma la ridondante scenografia era un po’ troppo natalizia – ha veleggiato su toni più leggeri, grazie anche alla conduzione pimpante e disinvolta del fanciullesco presentatore Neil Patrick Harris che sul red carpet è apparso sorridente a fianco del marito David Burtka. In uno spassoso sketch, forse il migliore della serata, è persino >piombato sul palco indossando solo un paio di mutande bianche citando l’analoga scena del virtuosistico “Birdman” del messicano Alejandro González Iñarritu che, come da previsioni, vince come miglior film e regia, aggiudicandosi anche sceneggiatura originale e fotografia (Sean Penn ironizza un po’ pesantemente: “Chi ha dato a questo ‘figlio di…’ la green card?).
Ma il momento più queer è stata la magnetica esibizione di Lady Gaga che, per festeggiare i 50 anni di “Tutti insieme appassionatamente”, ha stregato il pubblico in mezzo a un bosco di betulle e violini con un medley di brani dell’intramontabile cult per poi introdurre emozionata la sua ‘incomparabile’ protagonista, una Julie Andrews in ottima forma. Su Internet ecco i maligni che si scatenano per quel paio di guanti rossi in plastica ‘da sciacquatazze’ esibiti da Lady Gaga sul red carpet.

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Gli Oscar più belli? Il terzetto al vitalissimo “Whiplash” di Damien Chazelle, uno dei film con più personalità degli ultimi anni, sulla travolgente battaglia fino all’ultima nota – e all’ultimo sangue, letteralmente – fra un ambizioso allievo batterista al conservatorio e il suo esigente insegnante aguzzino, che si aggiudica il migliore attore non protagonista (l’eccellente J. K. Simmons), il montaggio e il sonoro. Noi ci possiamo consolare col quarto Oscar alla costumista Milena Canonero per “Grand Budapest Hotel” (che pareggia i conti con “Birdman” ma sul versante tecnico: anche scenografia, colonna sonora e trucco/parrucco). Lei è talmente top che può permettersi un banalissimo spolverino nero e copricollo con bocca bianca disegnata per sembrare la più elegante di tutti. Ma a risplendere sul tappeto rosso è stato soprattutto il fulgore black di Lupita Nyong’o ricoperta da un preziosissimo (e, pare, pesantissimo) Calvin Klein con qualcosa come seimila perle cucite a mano. Peccato infine non avere ricordato Francesco Rosi nel memoir dedicato ai cineartisti scomparsi, tra cui, per fortuna, è stata inclusa la divina Virna Lisi.

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Il miglior film straniero è il rigoroso e profondo dramma polacco “Ida” di Pawel Pawlikowski che batte avversari del calibro del possente “Leviathan” e del franco-mauritano “Timbuktu”, trionfatore ai recenti premi César con ben sette premi. Resta completamente a secco il meditato dramma “Foxcatcher” di Bennett Miller in cui c’è un sottotesto gay non approfondito fra il bravo protagonista, Steve Carell, nel ruolo del miliardario John DuPont, allenatore di lotta libera senza donna né amici, forse invaghito del suo allievo prediletto Mark Schultz (Channing Tatum).
Alle 6.08 italiane si conclude la cerimonia. Non ci siamo annoiati – ma la notte degli Oscar resta sempre una prova fisica – con qualche momento memorabile e premi piuttosto prevedibili in un’annata in cui i titoli, onestamente, non erano particolarmente forti (Birdman spicca per la potenza del suo stile travolgente, e va bene così). Ma come direbbe il crudele prof dell’emozionante e rivelatorio “Whiplash”, visto che sono le nove del mattino e vi salutiamo per andare a dormire: “That’s not quite my tempo!”.