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IL MUCCHIO SELVAGGIO

Il sesso come mezzo per essere permeabili al mondo esterno e fuggire l’infelicità: è la tesi del delizioso Shortbus, scatenato intreccio di eros e sentimento, gay ma non solo. Strepitoso Justin Bond.

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‘Permeabile’ è la parola chiave del delizioso, perturbante, trasgressivo Shortbus di John Cameron Mitchell. Se, come dice Dulbecco, siamo tutti simili a spugne in costante osmosi con la realtà, è proprio il non essere permeabili al mondo esterno la causa principale dell’infelicità dei protagonisti: il rapporto spento tra Jamie e James è filtrato dalla videocamera di quest’ultimo, alla ricerca dell’immagine perfetta che spieghi perché il loro amore sta annegando; la terapista di coppia Sofia ha «un blocco tra il cervello e il clitoride» che le manda gli orgasmi in corto circuito; la riottosa dominatrice Severin tutta pelle e dildi premurosamente disinfettati non riesce ad andare al di là della liscia superficie delle Polaroid che scatta in continuazione mentre, al contrario, un quadro appeso diventa permeabile – anzi, ‘spermeabile’ – a un creativo action painting a base di seme umano.
Ma il senso profondo del concetto di ‘permeabilità’ è sintetizzato esplicitamente dal personaggio più bello del film, l’ex sindaco anziano che combatte col senso di colpa per non aver combattuto adeguatamente l’Aids quando governava New York temendo un nefasto coming out (il riferimento all’ex major Ed Koch divenuto celebre per lo slogan Vote for Cuomo, not the homo non è certo casuale).

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Le polemiche sulla pornografia di Shortbus sono invece puramente pretestuose (la gioiosa ammucchiata sembra una versione gaia e divertita dell’orgia di Canicola) ma speriamo sinceramente che garantiscano almeno un’adeguata pubblicità al film: l’opera seconda di John Cameron Mitchell – un gradino più su del suo esordio Hedwig – non è affatto un film hard ma una vivida commedia in cui le scene esplicite di sesso si inseriscono adeguatamente nel tessuto narrativo del lungometraggio, non sono gratuite né volgari e a ripensarci fanno sorridere più che scandalizzare.
A dimostrazione di quanto sono retrò e prevenuti certi anziani critici italiani bastava vedere ieri notte…
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A dimostrazione di quanto sono retrò e prevenuti certi anziani critici italiani bastava vedere ieri notte la tremenda trasmissione Cinematografo di Marzullo in cui Gian Luigi Rondi non ha voluto parlare del film dicendo di aver restituito schifato il dvd di Shortbus dopo averne visto solo quindici minuti mentre Edoardo Bruno (peraltro in giuria al Togay nel 2003!) l’ha ignorato sostenendo l’argomento del film “futile”. L’originale Shortbus è, al contrario, una lucida cartina di tornasole che riflette alla perfezione lo spirito dei tempi, tra nevrosi diffusa e solitudine incombente, in cui la necessità di fare i conti con una liberazione sessuale sempre più a rischio nell’America teocon di Bush (ma noi stiamo poi meglio?) dimostra che i gay, in questo senso, sono ancora un’avanguardia da considerare con rispetto.
Nel cast bene assortito spicca lo strepitoso Justin Bond, vera drag queen underground newyorchese, nel ruolo dell’omonima maitresse dello ‘Shortbus’ a cui spettano alcune battute memorabili: «È come negli anni ’60 ma con meno speranza»; «un tempo volevo cambiare il mondo, ora voglio solo uscire da una stanza con dignità». Autore cult di fortunati spettacoli quali Justin Bond – Uncorked e Glamour Damage rappresentati a New York e Londra, Bond è celebre soprattutto come la cantante Kiki del duo Kiki e Herb specializzato in cover d’autore e incensato persino dal New York Times (Kenny Mellman, nel ruolo di Herb, l’accompagna solitamente al pianoforte).

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Resta impresso anche il volto plasmabile della convinta attrice sino-canadese Sook-Yin Lee, capace di attualizzare il gioco erotico dell’ovetto de L’impero dei sensi attraverso una prodigiosa versione telecomandata che causa spassosi equivoci a catena. Ed è interessante anche la non banale riflessione di Mitchell sui danni del malfunzionamento tecnologico: dall’apparecchietto elettronico cercapersone che fa impazzire i pacemakers al blackout generalizzato, i prodigi del progresso scientifico sembrano rivelarsi fragili e ingannevoli, inadeguati a favorire la comunicazione tra gli esseri umani e garantire il funzionamento di quella sensuale ‘scheda madre’ alimentata dal desiderio carnale che Justin Bond teorizza a Sofia sul divano.
Quasi un Sesso, bugie e videotape al peperoncino (‘bugie’ nel senso di ‘candele’, il romantico rimedio all’eclissi elettrica) in cui i rimandi al buon cinema gay che Mitchell ha coscienziosamente assimilato sono facilmente riconoscibili: dallo scoppiettante dialogo alla Go Fish nella stanza riservata alle donne, agli echi di Tarnation nel montaggio in video del significativo film casalingo di James. Ma il tono generale, melancolico e dissacrante, ricorda molto Ai cessi in tassì, un classico tedesco di Frank Ripploh che infatti Mitchell ama in maniera particolare.
Pieno di invenzioni visive e verbali (dalla New York rimodellata con un plastico bluastro al ‘poppercorn’ offerto nel locale), ha una magnifica colonna sonora tutta swing e minimalismi folk, firmata da emergenti di classe quali Scott Matthew – ben quattro pezzi tra cui l’insinuante Upside Down – e gli psichedelici Ark col ballabile Kolla Kolla.
Da vedere assolutamente.
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