L'AMBIGUITÀ DI "UN AFFARE DI GUSTO" - Unaffa 1 - Gay.it Archivio

L’AMBIGUITÀ DI "UN AFFARE DI GUSTO"

Cinema: un noir raffinato con retrogusto gay

Può essere crudele veder sul grande schermo un tripudio così smodato di piatti che straboccano, pietanze fumanti, nouvelle couisine da cesello, quando sulle calde mense estive è di rigore la dieta mediterranea, il maxipiatto ipocalorico, l’insalatona superproteica. Ma tant’è: orientandovi nella dissennata programmazione di fine stagione cinematografica, usualmente strapiena di penosi fondi di magazzino che durano in sala un paio di giorni, non dovete perdervi ‘Un affare di gusto‘ di Bernard Rapp, saporito psico-thriller francese ad alta tensione (ma dovete cercarlo nei ripescaggi di arene e rassegne poiché ha già avuto una distribuzione poco fortunata verso la fine di maggio e state attenti a non confonderlo col megasuccesso dal titolo simile ‘Il gusto degli altri’).

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Frédéric Delamont è un ricchissimo e famoso top-manager che a una cena di lavoro conosce Nicolas Rivière, un bel cameriere bruno molto servizievole e gli propone di divenire il suo assaggiatore personale: gli fa firmare un contratto iperrestrittivo che impone disponibilità 24 ore al giorno, divieto assoluto di fumare e di rivelare ciò di cui viene a conoscenza.

Delamont si rivela subito estremamente pignolo e ossessivo e pian piano riduce in suo assoluto potere Nicolas, isolandolo dalla sua vita privata: fa in modo che anche lui abbia la sua stessa allergia al pesce e ai formaggi (legata alla morte di suo padre), lo fa pedinare per scoprire il nome della fidanzata e degli amici, gli regala un attico in cui può controllarlo meglio, gli fa vivere esperienze estreme (lanci dal paracadute, viaggi in solitaria nel deserto, sciate spericolate). I due diventano sempre più legati fino alla totale spersonalizzazione del cameriere ormai succube del fascino dell’imprenditore il cui interesse nei suoi confronti resta misterioso fino alla fine: una passione estrema? Un crudele gioco di potere e di dominio? O forse il desiderio di creare una specie di ‘clone’ di se stesso, identico in forza ed ambizione, dovuto a una forma inconciliabile di solitudine inespressa e incomunicabile?

Sicuramente il profondo sottotesto gay del film è una delle corde su cui il regista gioca più intelligentemente la carta dell’ambiguità che pervade l’intero film, spiazzando continuamente lo spettatore riguardo alle intenzioni di Delamont (ma quando rivela alla fidanzata di Nicolas che non gli sono mai piaciuti gli uomini, che è stato sposato per due anni e lui stesso mette nel letto di Nicolas una donna ‘da dividersi’ si capisce che l’attrazione per il giovane va oltre la mera sessualità).

Gustosissima interpretazione del bravo Bernard Giraudeau – era il gay cinquantenne nel fassbinderiano ‘Gocce d’acque su pietre roventi’ di François Ozon – che ricorda il luciferino Dirk Bogarde de ‘Il servo’ di Joseph Losey (la cui trama è per altro molto simile) mentre non si può non parteggiare per l’indifeso e fascinoso Jean-Pierre Lorit nel ruolo del cameriere plagiato. Cameo di un invecchiatissimo Jean-Pierre Léaud nel ruolo dell’avvocato che cerca di capire che cosa è successo.

I detrattori del cinema francese, vedendo questo film, dovrebbero ricredersi: niente intellettualismi snob da camera e cucina ma azione e ritmo in raffinata salsa thriller con un’analisi da manuale di una manipolazione psicologica ai limiti del perverso. Intrigante.