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L’AMBIZIONE È LESBICA

Grande successo in American per “The L Word”, una sitcom piena di ragazze alla moda, svelte, in carriera. Capace di mostrare il mondo saffico come la tv italiana non riesce a fare.

“Ho l’ovulazione”.
“Allora facciamo un bambino”.

E mentre lo dice, Bette si avvicina a Tina e le dà un bacio appassionato. Sono due donne in un letto. Ma davanti a milioni di spettatori. Così inizia il telefilm americano The L Word.
La parola con la L, quella che in Italia non si dice, in USA è trita e ripetuta in prima serata: mentre gli italiani restano indietro e l’euro supera di gran lena il dollaro, l’America va comunque avanti. The L Word, di Ilene Chaiken, arriva dove non arriva la verità: nelle case di tutti gli statunitensi che, spensieratamente, stanno a guardare ciò che accade a un gruppo ben assortito di ragazze nella Los Angeles dei nostri giorni. Sì, esattamente dei “nostri” giorni: perché è inutile andarsi a nascondere in falsi di tempo e spazio, dietro il pretesto di una differenza culturale e storica nella quale si radicherebbe la loro preferenza per il ketchup e il nostro indiscutibile gusto estetico. I giorni sono comuni ed è l’anno 2004 tanto per gli Usa quanto per l’Italia: The L Word mostra di esserne consapevole.

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Nel telefilm americano, che segue Ellen e Queer of Folks, Shane (foto) è una parrucchiera che non si vuole legare e dorme ogni notte con una donna diversa; Dana è una tennista lesbica perennemente single; la giornalista Alice, invece, è confusa e bisessuale. Jenny e Tim, i vicini di casa della doppietta protagonista, sono l’unica coppia eterosessuale della serie, fino a quando la proprietaria di un locale, Marina, non ne turberà la quiete, oltre al padre conservatore di Bette e alla sorella alcolizzata Kit; completano il quadro Bette e Tina (foto sotto) che, dopo sette anni di relazione, cercano un donatore di sperma. Non uno qualunque: il donatore perfetto.

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Per chi volesse trovare esempi di donne infelici, maschie e senza gusto, The L Word non è il telefilm giusto: le ragazze sono alla moda, svelte, frequentano locali gay così come si frequentano locali molto in, lavorano e sono piene di ambizioni.
Non quella di dormire in giardino e portare la camionetta di Peccato che sia femmina; o di andare in giro ad uccidere la gente come in Butterfly Kiss, dove l’omosessualità è una malattia, un plagio, la follia di una turbata accanto all’insanità di una ragazzina priva di personalità (ma a disfarsi di cadaveri ci pensa anche la coppia Lenni-Stella nell’italiano Benzina); né quella di suicidarsi gettandosi dal tetto del collegio femminile de L’altra metà dell’amore dopo essersi arrampicate su alberi, mascherate da paladini d’altri tempi con la scherma e inginocchiatesi davanti al padre dell’amica impaurita a chiederne un’improbabile mano.

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L’ambizione di Bette è quella di portare all’apice un modesto museo di cui è direttrice, quella di Dana (foto), giocare a tennis a livelli agonistici, quella di Jenny, essere scrittrice di fiction con un sudato background universitario e premi letterari; c’è poi una Shane più controllata, parrucchiera – che a L.A. non vuol dire priva di ambizioni – e una Kit alcolizzata ma pur sempre musicista e, come tale, un po’ artistoide e insoddisfatta. Donne che, lungi dall’essere inquadrate in un’ottica di “non-alternativa” e dall’essere destinate ad infelicità, salvano capra e cavoli amando e vincendo. E quando non vincono, non è a causa dei propri orientamenti sessuali ma del normale corso della vita.
La televisione italiana, invece, resta lì dove la si è lasciata. Un solo colpo di coda, prima di morire: Will e Grace, Sex and the city e Buffy – L’ammazzavampiri, produzioni comunque non italiane (non ci si aspetti un Orgoglio gay) con un unico episodio a testa (ma già è tanto) che accenna ad attrazioni donna-con-donna. Ma una nota – al maschile – è ineludibile: Distretto di Polizia, uno dei migliori e più seguiti telefilm italiani, da anni racconta anche le storie un poliziotto gay.

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Sul versante femminile è difficile omettere, anche volendo, il bacio finto-omosessuale ripreso di recente dall’occhio indiscreto del Grande Fratello: Katia e Carolina, su un divano, si scambiano effusioni davanti a tutti, ma il fatto passa (volutamente) in cavalleria, e ne parla solamente la Gialappa’s Band nel corso di una puntata di “Mai dire Grande Fratello”. Gli altri tacciono: in fondo tra le due era un gioco e scoppiano a ridere dopo che Carolina, avendo seguito con la lingua a pelo la via che dall’ombelico porta alle labbra della bionda Katia, intriga l’Italia di Sky Tv che, del resto, ha già addomesticato spettatori curiosi con il Gay Channel.
Oltre a questo, nulla. Di parole con la L, in italiano, non se ne parla e al massimo si arriva alla L di “lacrime”. Quelle versate e quelle non versate da migliaia di donne omosessuali che tentano di vivere (in)serenamente la propria identità senza ritrovarsi in nessuno dei modelli che la televisione italiana versa nei bicchieri delle tavole apparecchiate per l’ora di cena. O forse la L di “lavoro”, luogo in cui non bisogna dire né ostentare, salvo omettere, o di “lacune”, quelle presenti nel nostro ordinamento e che non permettono di far rientrare in un linguaggio giuridico persone dello stesso sesso. Non di certo la L di lesbica.
Occultato in video e imposta come cliché (per probabili effetti-audience) dal bacio russo (addirittura) dietro le sbarre tra le due Tatu che cantano Everything she says, il lesbismo diviene un tabù italiano con conseguenti corollari: due donne italiane non si baciano, se lo fanno sono ubriache, se escono insieme è per plagio, se s’innamorano è per compensare una perdita maschile, se si lasciano è per trovare la completezza offuscata, se tornano all’uomo è l’ovvietà, la regola (salvo creare una comunità a parte, composta da persone borderline come quella di L’albero di Antonia). Morale: la virilità italica sarebbe in salvo tutte le volte che si ingoi il rospo di “far provare” alla propria compagna il gioco seduttivo omosessuale e, una volta accontentata la femmina, essa tornerà nei ranghi.
Ma allora qualcuno dovrebbe vedere lo svedese Fucking Åmål, il capolavoro di Lukas Moodysson (un uomo, incredibilmente), perché solo in film come questo una donna omosessuale può trovare indizi di sé.

di Romina Reale