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L’ANZIANO E L’ESCORT VINCONO IL TOGAY

Trionfa a sorpresa un piccolo film intimista, ‘So lange du hier bist’ del tedesco Stefan Westerwelle su un anziano e il suo gigolò. Il pubblico preferisce per la terza volta il favorito Eytan Fox.


Giuria scombiccherata, premi scombiccherati. Capita, ai festival. Ricordiamo, giusto per fare un esempio altolocato, che Con le migliori intenzioni di Bille August battè Altman e Lynch a Cannes. Qualche pasticcio deve esserci stato, infatti, se la giuria lunghi è stata ridotta a quattro membri dopo la defezione di Joe Dallesandro e Monica Cervera – peccato – con l’inserimento in extremis dello scrittore napoletano Massimiliano Palmese. Tant’è. Il Gran Premio Ottavio Mai del 22° Togay è andato

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all’intimista So lange du hier bist (Finché sei qui) di Stefan Westerwelle, quasi un home movie ripetitivo e un po’ sciatto sul controverso rapporto tra un anziano taciturno, Georg, e il suo giovane prostituto, girato in due camere e cucina dove i protagonisti rifanno continuamente i letti, mangiano, si parlano senza dirsi molto – Georg registra su nastro i dialoghi – si lavano, spesso al buio come in Sombre di Philippe Grandrieux (guarda caso finito anch’esso a Locarno come questo film).
Cinema vecchio, ammuffito, già visto. Mortifero e destrutturato come la tazza rotta che Georg ricompone nella prima scena. Che cosa può essere piaciuto alla giuria? Il fatto che sia un superlow-budget su un gay anziano, in controtendenza con un certo cinema queer giovanilista molto di moda, non è affatto secondario. La motivazione parla infatti di incoraggiamento a un esordiente: «Per il loro primo film i registi devo spesso confrontarsi con le difficoltà derivanti dal budget o da scarse disponibilità artistiche e produttive. Quest’anno la giuria ha trovato il film che, nonostante questo, ha assolto brillantemente la sua missione. Con un solo ambiente, due attori e l’impegno di cambiare l’iconografia gay dalla sua consunzione della bellezza e giovinezza a quella della maturità, siamo lieti di consegnare il primo premio al suddetto film».

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Teniamo presente che in giuria c’erano un membro della Andy Warhol Foundation, Mario Zonta, certamente abituato alle cineprovocazioni in saldo, e un paladino del video queer a basso costo, il cinese Zi’en Cui. Un po’ meglio la menzione speciale, andata all’argentino Glue di Alexis Dos Santos, un film vitale e anarchico alla Lucrecia Martel su un gruppo di giovanissimi alle prese coi turbamenti sessuali e sentimentali, tra sniffate di colla e video porno in un’Argentina polverosa virata in ocra. Una segnalazione al bel film di Eytan Fox The Bubble avrebbe potuto aiutarlo non poco a trovare una distribuzione italiana: un’occasione mancata. Per ora ci sono trattative con Mikado ma nulla di concreto.
Il capace autore israeliano si deve così accontentare per la terza volta del premio del pubblico, le cui scelte, quest’anno, ci sono sembrate assolutamente condivisibili: tra i documentari ha infatti segnalato l’ottimo Bubot Niyar (Bambole di carta) dell’isrealiano Tomer Heymann su un gruppo di drag filippine che di giorno fanno le badanti di anziani ebrei ortodossi. Toccante, coinvolgente, ben fatto.
Cerimonia di chiusura presentata da una pimpante Paola Maugeri in avanzato stato di gravidanza («che noia se il mondo fosse tutto etero!») e intervallata da un tributo musicale a Giuni Russo con canzoni di Lene Lovich, le MAB e una luminosa Alice a cui sono seguiti applausi fragorosi e persino un accenno di standing ovation.
In coda il liberatorio film di chiusura Another Gay Movie
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In coda il liberatorio film di chiusura Another Gay Movie di Todd Stephens, commedia demenziale americana su quattro adolescenti americani fortemente tipizzati (biondino compiacente, moro tonico, checca truccata, verginello avidamente bottom) e la loro amica lesbica obesa Muffler che li ospita nella sua villa con piscina per la festa di laurea. Unico obiettivo: sesso a volontà. Comicità corporale di grana grossissima (flatulenze, rutti, vomitate sulla schiena alla richiesta di sesso bareback, dildi di ogni foggia e misura, molto nudo soprattutto posteriore) e un’ironica parodia di situazioni stereotipate e codici queer – orsi leather che giocano a baseball, webcam sotto le docce degli spogliatoi, sling e fisting sovradimensionati, palestrati narcisi, un pene di papà che ferisce l’occhio del figlio in un glory hole nel bagno pubblico – talmente sbracata da risultare sfrenatamente simpatica. Battute cult: «Tutti i cattolici sono passivi»; «Queer as Folk guarda e impara!» detto da un ragazzo fornicante direttamente in camera. Pubblico in delirio.

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Un’edizione molto interessante quella di quest’anno, in cui la nuova funzionale doppia sede centrale Ideal-Ambrosio ha fatto da vera protagonista dando più visibilità alla manifestazione. Un festival aperto alle contaminazioni più varie e agli slittamenti di genere, con un occhio di riguardo per la videoarte contemporanea in dialogo continuo e diretto con pittura e arte figurativa (belli in particolare i rosso-neri espressivi di Luigi Caiffa). Sorpresa: ci immaginavamo truci show sanguinolenti per l’artista-performer Franko B., un curioso troll ipertatuato con dentatura dorata, che invece ci ha stupito, durante l’elegante vernissage della sua mostra Full of Love, con cuori al neon e scritte fluo ipersentimentali anche un po’ kitsch.

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Una bella sorpresa: il cinema italiano si è presentato agguerrito e ha fatto bella figura (solo l’involuto Schopenhauer non ci ha convinto). Non male l’onesto Cover boy – L’ultima rivoluzione di Carmine Amoroso ambientato in una Roma garroniana caotica e proletaria, dove seguiamo la non facile odissea di un bell’immigrato rumeno che sfugge all’umiliazione della prostituzione legandosi a un addetto alle pulizie italiano col quale vuole aprire un ristorante a cui non rinuncia neanche dopo il facile successo come modello. Sentimenti schietti e un realismo mai banale per un cinema senza fronzoli, un bel salto in avanti del regista di Come mi vuoi.
Cameo di una deliziosa Luciana Littizzetto – catalizzatrice di orde di pubblico in sala 1 – nell’ironico ruolo della padrona di casa ‘attrice generica parlante’ frustrata per non aver avuto successo al cinema: «Non ho sfondato perché non mi sono fatta sfondare!». Anche la valida docufiction Ma la Spagna non era cattolica? di Peter Marcias, che analizza dall’interno l’arretratezza del Vaticano e quindi dell’Italia rispetto al modello zapateriano, è uno sguardo lucido e consapevole di cui il nostro cinema ha sempre più bisogno, tra giornalismo d’inchiesta e finzione appassionante.
Tendenze: un cinema sempre meno omosessuale ma aperto ai più vari sperimentalismi sessuali soprattutto tra giovani e commistioni culturali straight; molto naturismo, non necessariamente sessuato, in fuga dalla città; il ritorno a frotte di sentimento e tenerezze.
Rivelazione: la scoperta del quasi sessantenne regista francese Philippe Vallois e del suo cinema gay-vintage, dal raffinato ‘Johan’ del 1975, primo film omo d’Oltralpe, al camp ‘Haltéroflic’ col suo culturista orso che vive in una chiesa sconsacrata con palestra attrezzata nella navata centrale e seduce un timido poliziotto fino a trasformarlo in una sorta di Rocky Horror fanatico del muscolo e coperto di bende per i traumi muscolari.
Il Togay è sempre più grande e invecchierà benissimo, sicuramente meglio del film vincitore.
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