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Ossessioni d’amore (gay) in Laguna

Affascina “Persécution” di Chéreau su stalking gay e solitudine ma è “L’amore e basta” a far emergere la vera passione glbt. Ermetico “Domaine”, irrisolto “Silent Voices”. Fischi a “Io sono l’amore”.

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Amori estremi, appassionati, non allineati sono al centro di varie opere presentate alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, mai come quest’anno particolarmente attenta alla tematica glbt. Nel graffiante “Life during wartime” (“La vita durante la guerra”) dell’“uomo Solondz”, ovvero quel discolaccio indipendente americano che è il genialoide Todd Solondz, ritroviamo il papà pedofilo di ‘Happiness’ che esce dal carcere e rintraccia il figlio maggiore per assicurarsi che non abbia ereditato il suo ‘gene recessivo’ mentre il più piccolo, dopo aver scoperto che il papà non è morto ma recluso, teme che il nuovo compagno della mamma sia a sua volta un pericoloso adescatore di bimbi perché gli ha semplicemente toccato un braccio. Sottilmente cinico ma in realtà pervaso da un’accorata pietas che dimostra un profondo affetto per i propri personaggi, l’intenso “Life during wartime” fa riflettere sugli stereotipi diffusi riguardo alla questione pedofilia con profonda ironia e intelligente sarcasmo. È semplicemente illuminante l’apparizione di Charlotte Rampling, bellissima e dolente, nel ruolo di una donna sola e decisa, con alle spalle un matrimonio fallito causa marito gay, a caccia di sesso a buon mercato in un bar.

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Nel notevole “Persécution” di Patrice Chéreau, il grande regista francese di “La regina Margot” e “Nell’intimità”, è un’ossessione d’amore gay a sconvolgere la vita di un ragazzo inquieto, Daniel (Romain Duris, che charme!), che si barcamena tra lavori saltuari in cantieri e ospizi. Fidanzato da tre anni fra alti e bassi con la carrierista Sonia (un’eccellente Charlotte Gainsbourg), Daniel viene perseguitato da uno sconosciuto (Jean Hughes Anglade, assai invecchiato) che penetra a casa sua, si fa trovare completamente nudo su un materasso, gli dichiara eterno amore ricevendo in cambio da Daniel solo botte e insulti. Lo stalking gay si traduce in appostamenti dal palazzo di fronte, telefonate anonime, irruzioni notturne. Ma Daniel non chiama la polizia, non lo denuncia e la presenza del molestatore diventa col tempo così famigliare da trasformare la molestia in un’occasione inattesa per confidare i drammi d’amore di Daniel. Chéreau è assai bravo nel tratteggiare l’isolamento di questa piccola confraternita di anime sofferenti, non ridicolizza l’ossessione gay come fa temere l’inizio del film ma riesce a rendere efficace la metafora amorosa senza buttarla sull’erotico ma evitando il facile sentimentalismo.

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Parte da un’idea interessante e originale ma non è sviluppata adeguatamente l’ermetica opera prima franco austriaca “Domaine” di Patric Chiha, presentata dalla 24esima Settimana Internazionale della Critica, in cui un’affascinante ricercatrice di matematica dal bicchiere facile (Béatrice Dalle, magnetica ma poco credibile nel ruolo) si innamora del nipote diciassettenne (il cinegenico Isaïe Sultan) ma, rendendosi conto della sua omosessualità, utilizza una tecnica ‘topologica’ per farglielo comprendere: ossia lo porta nelle zone cruising di un parco e in una discoteca dove si esibisce un travestito-non travestito col nome d’arte di Joan Crawford. Ma la sua passione per le regole normate e l’ordine sistematico non sarà sufficiente a prevedere il caos che l’attende quando si renderà conto di non poter vivere la propria passione amorosa – sarà invece il caso a far incontrare, su un autobus, il nipote e un ragazzo gay con cui avrà una storia – e verrà costretta a farsi curare in una clinica austriaca per disintossicarsi dall’alcol . Dramma sofisticato con una certa eleganza di stile ma poco compatto e non digeribile cita Einstein e Godel che vanno insieme a passeggio e i teoremi di quest’ultimo, cardini supremi della logica matematica, ma ‘Domaine’ soffre proprio dell’oggetto di studio di questi grandi scienziati, ossia l’incompletezza.

L’accumulo di eccessivo materiale narrativo è invece il difetto principale del ridondante “Qu’un seul tienne et les autres suivront” (il titolo internazionale è “Silent Voices”, “Voci silenziose”) di Léa Fehner presentato alle seste Giornate degli Autori. Nel parlatorio di una prigione francese si ritrovano vari personaggi tra cui la madre di un algerino assassinato dall’amante maschio, il sosia di un pericoloso pregiudicato e la fidanzata di un bulletto ribelle. Sembra una specie di dramma realista alla Guédiguian sull’orlo di una crisi di nervi, ben recitato ma eccessivamente dilatato e un po’ legnoso: ha messo a dura prova la resistenza degli spettatori che l’hanno accolto con un tiepido applauso.

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La passione più estrema, radicale ma solidamente credibile emerge in un semplice, essenziale, onesto documentario italiano dallo scorso venerdì nelle sale italiane delle città capozona in dieci copie, “L’amore e basta” di Stefano Consiglio. Senza alcun orpello né narcisata o compiacenti “captationes benevolentiae” nei confronti dello spettatore, il regista intervista nove coppie gay e lesbo sulla loro vita in comune, senza essere invadente ma evitando banalità: si parla del concetto di coppia e famiglia, di Dio ma non della Chiesa, del senso dello scorrere del tempo nel portare avanti un progetto di vita. Con sorprendente efficacia, “L’amore e basta”, a cui danno respiro le evocative animazioni della bravissima Ursula Ferrara, riesce a smontare in modo encomiabile anche alcuni luoghi comuni radicati nella stessa cultura gay, quali la fedeltà assoluta delle coppie lesbiche e la scomoda questione dell’omofobia interiorizzata negli stessi omosessuali. Il fulminante monologo di Luca Zingaretti che legge un esemplare racconto di Aldo Nove sulla nascita del pregiudizio antigay a scuola approfondisce con rara consapevolezza un concetto chiave per l’educazione queer, ossia quanto sia significativo il fatto che “l’insulto sia la prima forma di conoscenza di un omosessuale” come giustamente sostiene Franco Buffoni nello splendido saggio/romanzo “Zamel” (Marcos y Marcos). Con una trasparenza del mezzo cinematografico che lo fa accostare ai “Comizi d’amore” di pasoliniana memoria, l’importanza di un documentario del genere, militante ma non politico, sta nell’elevato valore educativo e dovrebbe essere proiettato nelle scuole come auspicato dall’onorevole Concia, unica grande assente dell’interessante dibattito “La normalità dell’amore” svoltosi alla Villa degli Autori alla presenza dell’Onorevole Franco Grillini, dell’ex ministro francese Jacques Lang, di Luca Zingaretti e dei produttori del film, Angelo Barbagallo e Andrea Occhipinti. Lang ha tra l’altro affermato, a proposito dei diritti glbt: “Darei il Leone d’Oro alla Spagna per il coraggio e un premio speciale della giuria a Obama”.

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Un personaggio lesbico positivo ma non approfondito – la mamma accetta con naturalezza il suo nuovo amore – recitato scientemente da Alba Rohrwacher, dà spessore all’ambizioso ma irrisolto “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino. Anche qui una passione improvvisa, incontrollata, totale è il fulcro della vicenda incentrata sul collasso di una famiglia d’imprenditori milanese: la madre russa dei Recchi (Tilda Swinton, diretta meno bene del solito anche perché non c’è molta alchimia tra lei e Edoardo Gabbriellini) s’innamora del nuovo giovane cuoco ed è disposta a tutto pur di vivere questa sconvolgente passione. Discontinuo ma girato bene, è interpretato con dissonante teatralità da Pippo Delbono e Marisa Berenson. Fischi in sala a fine proiezione.