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PAPPI, PEDRO E LE ALTRE

Intervista a Corsicato, l'”Almodòvar d’Italia” regista di Libera e I Buchi Neri. Il senso dell’amore, i progetti futuri, l’ambiente omosessuale e la tematica gay sul grande schermo.

Ciò che più colpisce di Pappi Corsicato sono gli occhi. Un azzurro mare intenso celato a fatica sotto un paio di lenti spesse bordate di nero. Incontriamo l’originale regista napoletano di Libera e I buchi neri al XXI Torino Film Festival dove è stato designato membro della giuria (che ha fatto vincere il film francese La fine del regno animale di Joël Brisse). La sua affabilità informale rende l’incontro molto piacevole e la sua aria un po’ svagata svela un’anima creativa difficile da classificare.
Il tuo ultimo film è del 2001, Chimera. Che cosa hai fatto dopo e di cosa ti stai occupando adesso?
Mi sono soprattutto dedicato all’arte. Ho curato installazioni fatte da artisti come Rebecca Horn, altre opere a Napoli, le aureole colorate che si vedevano intorno a quella chiesa in collina qui a Torino…
Ah sì, al Monte dei Cappuccini (per Luci d’Artista, n.d.r.)
Sono un po’ fermo al momento perché sto scrivendo alcune sceneggiature, mi prendono molto tempo ma non ne sono troppo convinto… Riguardano soprattutto la coppia e di quanto uno che va alla ricerca di una relazione amorosa conosca poco chi ha di fronte…
Un po’ sullo stile di Chimera?
Chimera era diverso, parlava di una coppia che si tradisce ma non riesce a separarsi, questa è su due persone che pur non potendosi conoscere bene per un motivo che non ti posso dire si innamorano e provano un forte desiderio di avere una relazione ma una cosa è provare il desiderio, un’altra condividerla realmente. Ma voglio scindere da una tipologia sessuale rispetto a un’altra, è una riflessione che faccio io rispetto a quello che sento, che vedo, che provo…
E come mai non diventa ancora un film?
Perché è complicato rispetto anche a quello che il panorama italiano richiede… Qualche anno fa pensavo che ci fosse un canale alternativo per questi prodotti ma in realtà non c’è… Bisogna arrivare a compromessi… Ma nel 2004 dovrei iniziare a girare.
E’ vero, adesso va molto la commedia realista alla Muccino…
Che va benissimo ma non rientra nel mio gusto, né rientrerebbe nelle mie capacità, la farei comunque a modo mio…
Il tuo stile è infatti molto personale, onirico…
Sì, quello che è strano per me è che non faccio la commedia. Anche Libera era una storia semplice ma non realista…
C’è chi ha definito i tuoi film neon-realisti.

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Una frase che è stata superabusata, era un modo scherzoso per definire Libera, paradossalmente erano film molto più metaforici quelli classici del Neorealismo: se raccontare la realtà è raccontarlo in maniera naturalistica, si tratta di naturalismo. La verità può venire fuori anche in altri modi, più forti, più veri. Cioè non si copia la realtà ma la si ricrea.
Un po’ come il Dogma?
Quello è ancora un altro linguaggio filmico, non sono realistici, ci sono regole precise su come si muove la macchina da presa.
Nel tuo cinema ci sono influenze molto pop, è inevitabile citare Almodóvar.
Io devo dire grazie ad Almodóvar che per me è stata una rivelazione. Fin da quando ero piccolo io volevo fare un film solo che credevo che fosse una macchina talmente complicata da portare avanti che mi spaventava solo l’idea. Quando ero a New York, dove ho fatto molte esperienze attinenti allo spettacolo studiando arte e recitazione, vidi La legge del desiderio. Finalmente vedevo un film che raccontava una storia omosessuale che era una storia d’amore. Il suo stile, i suoi colori, soprattutto la sua ironia mi colpirono. Lo ringrazio per questo, più che per essere stato sul set di Légami come assistente volontario. In realtà non feci nulla, non mi fecero portare neanche un caffè. Mi misero su una sedia a guardare cosa succedeva sul set, come Pedro faceva le riprese. Non è stata un’esperienza didattica. Ho colto però in lui alcune qualità che pensavo di avere anch’io. Non ho imparato praticamente nulla ma fu una spinta per fare questo mestiere. Poi scoprii Fassbinder.
Come hai fatto ad arrivare sul set di Légami?
Sapevo che Almodóvar era a Roma per i David di Donatello. Andai ad aspettarlo nella hall dell’hotel con un enorme mazzo di fiori. Lo incontrai, glielo diedi e gli chiesi se potevo lavorare con lui. Mi diede l’indirizzo della Deseo Producciones del fratello Agustin, a Madrid.

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Come paragoneresti il tuo stile a quello di Almodóvar?
Lui è più concreto. Parte da una storia per raccontare dei personaggi. I miei film sono più come dei percorsi interiori, una specie di piccole parabole, alla fine un viaggio catartico che ti porta a niente o a un cambiamento attraverso metafore o simboli. Ma non sono psicologici, non stanno ad analizzare le sfumature dei caratteri. L’uovo e la gallina de I buchi neri in realtà nascono da un sogno. Sognai di trovarmi in una casa diroccata. Con grande sgomento scoprii che era piena di uccelli, di cui ho il terrore. Fuori dalla casa c’erano mille uova, simbolo di rinascita e cambiamento. Il mio vero nome, tra l’altro, è Pasquale.
Nei tuoi film la tematica gay è quasi sempre presente…
Sì, ci sono riferimenti non tanto al gay o all’etero ma alla sessualità in genere, alla libertà sessuale nel senso più stretto del termine. A letto uno dovrebbe essere il più aperto possibile, accogliere a braccia spalancate l’altro in tutte le forme in cui può apparire. Anche in Chimera c’è una specie di scambio di coppia con una battuta e uno sguardo con chiaro riferimento omosessuale. Nei miei film non c’è mai un discorso morale o moralistico. L’unica mia etica è che ognuno dovrebbe porsi in maniera evolutiva nei confronti della vita, analizzarsi e capirsi per arrivare a una consapevolezza di quello che vuole per vivere meglio, al di là del New Age.
E riguardo al coming out che pensi?

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Non amo la ghettizzazione. E’ una questione fortemente privata. Mi spostano i nervi sia i macho esagerati che le donne che esibiscono in maniera ostentata la loro femminilità. Detesto la chiusura. Negli ambienti strettamente gay mi sento a disagio. Spesso non si condividono altre esperienze che quella di fottere.
Parlami un po’ del tuo rapporto con gli attori, lasci loro molta libertà?
Con gli attori ci vuole disciplina. Anche se spesso giro con attori che sono amici da una vita come Iaia Forte (foto) spiego sempre bene quello che devono fare.
Come mai secondo te il film collettivo I vesuviani, che doveva essere una specie di manifesto sul nuovo cinema napoletano, non ha funzionato?
Era troppo lungo. I singoli episodi non erano brutti ma messi insieme non funzionavano. E poi è stato un errore metterlo in concorso a Venezia.