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Rourke è risorto, in stile bear, ma Penn lo batte ai punti

Nel match da Oscar ha vinto giustamente Sean, anche se il reviviscente Mickey offre un’interpretazione memorabile di lottatore “loser” nel decadente Leone d’Oro di Aronofsky.

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Il tormentone critico del momento è: Sean Penn meritava l’Oscar per il gay “Milk” o doveva andare a Mickey Rourke per il Leone d’Oro “The Wrestler”? Molti stanno dalla parte dell’Academy, che ha consegnato al sublime Penn una statuetta meritatissima; ma c’è chi esacerba la discussione, come Aldo Fittante, direttore di “Film Tv”, secondo il quale il mancato Oscar a Rourke è “un torto enorme è forse irreparabile”. No, per una volta l’Academy ci ha visto giusto. Certo, l’interpretazione di Mickey Rourke in “The Wrestler” è notevole, ma il suo nobile lavoro va innanzitutto inquadrato nel metodo Stanislawskij propagandato dall’Actor’s Studio e tanto amato da Marlon Brando: lui non recita ma “è” Randy Robinson detto “L’Ariete”, wrestler di successo negli anni ’80, caduto in disgrazia e costretto a vivere in una roulotte e a esibirsi in incontri d’infimo ordine per poi a rinunciarvi a causa di un infarto per sovrasforzo sul ring e vendere cibaria mal cucinata dietro il bancone di un supermercato. 

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Dalla prima all’ultima inquadratura, anche se nella sua vita è stato pugile col soprannome di “El Marielito” e non lottatore, Mickey Rourke interpreta se stesso ma senza un vero talento attoriale, dandosi senza risparmio in maniera molto “fisica”, fatta di carne torturata e sangue a fiotti (subisce di tutto: sparapunti, lamette, affetta-prosciutti, eccetera) e dove il corpo gonfiato da droghe varie, steroidi e chirurgia plastica rende assolutamente irriconoscibile, se non in qualche lampo dello sguardo, il bel Mickey supersexy, fascinoso e magnetico, dei tempi di “9 settimane e ½ “. Al contrario, Sean Penn “sparisce” davvero sotto la pelle di un reincarnato Harvey Milk: la sua interpretazione lo trasforma realmente nel celebre attivista gay di Woodmere e la sua abilità sta proprio nell’eccelso mimetismo in cui nulla è lasciato al caso ma frutto di profonda e studiata assimilazione: modulazione della voce, comportamento, gestualità e aspetto fisico. 

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L’ingiustizia invece c’è stata a Venezia, dove la Coppa Volpi è inspiegabilmente finita nelle mani di Silvio Orlando per “Il papà di Giovanna” firmato Pupi Avati, assolutamente inferiore alla virtuosa performance del reviviscente Rourke (improvvide mosse campaniliste o semplice ossequioso rispetto della regola che impedisce sovrapposizione dei premi maggiori?). Merito della riuscita va  anche all’accorta regia di Darren Aronofsky, un eclettico talento snobisticamente sottovalutato (l’intrigante “Pi – il teorema del delirio”, ma anche lo straziante “Requiem for a Dream” con una suprema Ellen Burstyn) che in “The Wrestler” dà il giusto spazio al suo giganteggiante protagonista pedinandolo di spalle alla Zavattini/Dardenne e valorizzando due eccellenti spalle femminili: una Marisa Tomei giustamente nominata all’Oscar, dolente e protettiva lap-dancer in cerca di riscatto emotivo e una furente Evan Rachel Wood, figlia abbandonata e bisognosa di una legittima riconciliazione con la figura paterna vagamente omofoba che la crede lesbica con sottile disgusto. 

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Del mondo dei lottatori abbiamo la conferma che gli incontri spesso sono studiati a tavolino, mossa per mossa, e i contendenti sono in realtà complici; nei backstage il cameratismo tra questi ammassi himalayani di carne muscolosa spesso depilata – gli amanti del genere bear rasato ne andranno pazzi! – spesso confina nell’approccio goliardico filogay (Rourke invita con sguardo ambiguo a “farsi la doccia tutti insieme”). La lotta tra maschi, nudi o con costumino colorato a seconda delle esigenze di scena, è uno dei feticci del porno gay, e su Internet proliferano siti ad essa dedicati, quali il giovanilista “Gay Wrestling Sex Videos”.
Bellissima, sui titoli di coda, la canzone di Bruce Springsteen che dà il titolo al film, questa sì ingiustamente ignorata dall’Academy che non l’ha nemmeno nominata agli Oscar.

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Se amate il pettorale tornito, i corpi anabolizzati e madidi di sudore dei wrestler professionisti ma soprattutto un’interpretazione da loser comunque memorabile, in grado di riconsegnare all’empireo hollywoodiano una star degli anni ’80 tornata in auge dopo una mutazione fisica davvero gender, non potete perdervi questo ruggente (ma anche decadente) Leone d’Oro 2008 che rappresenta in modo emblematico anche la fine dell’era Bush, di cui Mickey Rourke è sempre stato un gran sostenitore.