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Se la felicità si cerca in discoteca

E’ vero che in mezzo a tanta gente è possibile sentirsi del tutto soli. Visto però che c’è chi è solo per davvero, forse basterebbe pensare che la prossima volta andrà meglio.

“Mi piacerebbe facessi un articolo sulle discoteche e in particolare sulle tecniche di ‘rimorchio’ adottate dai gay.  Nella mia esperienza, la maggior parte delle volte in discoteca non si riesce a conoscere nessuno. Tutti sembrano inavvicinabili e intenti a sfilare. Molto raramente capita di socializzare o di riuscire a conoscere qualcuno. La discoteca per me sembra più una tortura che una possibilità reale di incontri. Che ne pensi?”.

Non credo di essere in grado di stilare una lista delle tecniche di rimorchio, ma concordo sul fatto che la discoteca (gay) non sia esattamente un’isola felice. Premetto però che la mia visione è minata alla base da un’ostilità di fondo per i luoghi rumorosi e dalla mia scarsa inclinazione per ballo, fumo e cocktail di ogni tipo. Quando ero un ragazzino e mi avventuravo in discoteca senza avvicinarmi nemmeno alle dark-room, puntando con insistenza un ragazzo che a me sembrava molto carino senza riuscire a concludere nulla, senza conoscere nessun altro, rincasando all’alba stanco morto e col puzzo delle sigarette impregnato indelebilmente sui vestiti, la pensavo esattamente come il nostro amico.

Quando però mi andava bene e qualcosa succedeva (un incontro galante, qualche amicizia nuova, un po’ di euforia e la sensazione di far parte di qualcosa insieme a tutte quelle persone sconosciute), vedevo le cose in modo diverso. Perché anche per la discoteca ci vuole un po’ di fortuna, oltre che l’umore adatto, la compagnia giusta e la capacità di rilassarsi anche quando non succede niente. Credo sia per questo che molti si ubriacano o si strafanno. Certo, è un peccato che luoghi così frequentati non riescano a farti sentire meno solo senza ricorrere per forza ad ‘aiutini’. In fondo, chi vive oggi nelle grandi città italiane dovrebbe sentirsi già fortunato rispetto ad altre situazioni. Non sono il solo a pensarla così:

“Oggi, a tavola, parlavo con papà (62 anni), che mi raccontava di
quando lui dormiva nell’anticamera, perché nel dopoguerra non avevano i soldi, fino all’età di 33 anni, quando si è sposato. Alla mia mente si è svelata una situazione che conoscevo ma su cui non avevo riflettuto.  Un giovane uomo, con uno spazio proprio (la camera di tutti noi che viviamo a casa) non proprio, anzi una via di passaggio. E mi sono chiesto: come avrebbe potuto vivere un gay di oggi, con il pc quasi perennemente collegato, con la privacy di cui ci facciamo scudo per scrivere anche solo un sms? Quanto potrebbe farci crescere umanamente conoscere cosa voleva dire essere gay negli anni 50-60?!”

Oppure, senza andare troppo lontano: “Ho 45 anni, sono gay da sempre, almeno dall’età di cinque anni. Vivo in un paesino di 500 abitanti della provincia di Cosenza. La mentalità qua vuole che il gay non esista. Esistono solo uomini e donne. Gli uomini, sono tutti etero, cioè uomini e basta e fanno quello che si è sempre fatto: si sposano, fanno figli, lavorano e garantiscono una casa in eredità ad ogni figlio. I rapporti (solo sessuali) tra uomini ai miei tempi si avevano e ho saputo da amici giovani gay che succede ancora! Ma la figura del gay cosciente, che non limita il suo campo solo all’aspetto sessuale, destabilizza”.

Io che ho la fortuna di frequentare da quasi vent’anni un ambiente gay, forse non sempre amichevole, ma che conta numerosi locali, discoteche e luoghi di incontro (per non parlare delle chat), quando mi confronto  con esperienze come queste, sento quanto sia lagnoso sputare sul piatto dove fin troppo ho mangiato. Per cui, pur confessando che la discoteca non è luogo a me troppo caro, che ho smesso da tempo di esserne assiduo frequentatore e che non ne nego gli aspetti alienanti e cinici, devo riconoscere che troppe volte ho finito per giudicarla solo da come era andata la serata, pretendendo che il divertimento fosse compreso nel prezzo e non rendendomi conto che, per quanto triste e solo potessi essermi sentito in mezzo a tutta quella gente, pure una possibilità mi era stata offerta. E non era escluso che la prossima volta potesse andare meglio.

Flavio Mazzini, trentacinquenne giornalista, è autore di Quanti padri di famiglia (Castelvecchi, 2005), reportage sulla prostituzione maschile vista "dall’interno", e di E adesso chi lo dice a mamma? (Castelvecchi, 2006), sul coming out e sull’universo familiare di gay, lesbiche e trans.

Dal 1° gennaio 2006 tiene su Gay.it la rubrica Sesso.Per scrivere a Flavio Mazzini clicca qui

 

di Flavio Mazzini