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“The Way I See Things”, l’amore è sempre la cura migliore

Un intrigante film-terapia sull’elaborazione di un lutto inaugura stasera il Festival Mix alla presenza del regista Brian Pera. Otto perde il ragazzo e si rifugia in una comunità buddista in un bosco

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È una scelta audace e ammirevole, in tempi di omologazione anche cinematografica, inaugurare un festival gay (o post-gay?) non con la consueta commedia/vetrina acchiappa-pubblico, rassicurante e innocua, ma con un film insolito, intrigante, che si insinua nell’inconscio e torna in mente a sprazzi come se una visione non bastasse e reclamasse più attenzione per svelare i suoi reconditi segreti.

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È il caso dell’ermetico The Way I See Things ("Come vedo le cose"), abbacinante film-terapia che aprirà stasera alle 21 il Festival Mix al Teatro Strehler di Milano – via Rovello, 2 – alla presenza del regista esordiente, Brian Pera, vero factotum di questa produzione super-indipendente (oltre ad averlo finanziato, firma regia, sceneggiatura, ruolo principale e montaggio).

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«The Way I See Things è tratto da un romanzo che ho scritto dopo la morte delle mie due nonne, di uno zio e due cari amici» spiega Pera. «È stato per me un difficile periodo e avevo problemi nel relazionarmi con gli altri. È stata un’esperienza estrema. Non volevo avvicinarmi a nessuno, perché pensavo che non avrebbe capito o potesse succedergli qualcosa di orribile. Ma la vita procede spietatamente e con fatica: ti senti bloccato ma il mondo esterno continua a girare. La sensazione che si prova è di ostilità». Il protagonista Otto, infatti, perde il fidanzato e si rinchiude in casa, abulico e inerte. Dopo una visita psicologica, gli amici lo convincono a evitare medicine e autoreclusione portandolo lontano da casa. Finirà in una strana comunità buddista che ha la sua sede in una casa di legno immersa nel bosco e assomiglia a un ashram postmoderno dove i mandala si fanno coi bottoni e le sedute di psicodramma auto-analitico terminano con un cordiale "namasté". «Il mondo è un immenso universo multidimensionale a più livelli: il modo per fare esperienza è liberare il senso della consapevolezza» sostiene la sacerdotessa-guru.

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Attraverso complessi transfert con un membro della comunità, in grado di far riemergere il vissuto irrisolto di Otto relativo non solo al lutto ma anche al rapporto con i suoi famigliari e la mamma del suo compagno defunto (lo stesso attore, Jonathan Ashford, interpreta tre personaggi e questo può spiazzare gli spettatori), il protagonista scoprirà una nuova dimensione esistenziale in cui osservare e giudicare se stesso e il proprio passato con un’ottica decisamente diversa, mettendo in crisi l’armonia interna del gruppo ma comprendendo quanto fosse comunque egoista e anche rischiosamente reversibile la chiusura nella propria afflizione.

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Nonostante il tema lugubre dell’elaborazione di una perdita affettiva, The Way I See Things non cade nella trappola del compiacimento reiterato o della tortura lagnosa, ma ha un tono personale tra l’ipnotico e il riflessivo, reso coinvolgente da alcune intelligenti soluzioni di regia: la prima parte del film e la coda sono in bianco e nero contrastato, a riflettere un particolare stato d’animo di Otto, mentre gli inserti onirici hanno colori acidi e un montaggio da videoclip alla Cam Archer.

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Un tipico film da dibattito, molto dialogato, la cui anima è popolata da fantasmi identitari e suggestioni visive, girato con un’acuta sensibilità per l’elemento naturale che lo accosta alla Kelly Reichardt di Old Joy e intriso di quel disagio rurale sudista in stile Faulkner (di cui si intravede uno dei suoi romanzi più complessi, la storia trifamigliare di Absalom, Absalom!) che rende con efficacia sullo schermo "i sentieri lisci a forza di piedi", potente metafora del valore formativo dei travagli esistenziali dovuti all’esperienza dolorosa del distacco.