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Volano gli incassi al Togay delle famiglie queer

Il tema della famiglia lgbt domina al festival torinese: commuove “Any Day Now” sull’adozione di un ragazzo down. Delude “Interior. Leather Bar”. Da premio il prete gay di “In The Name Of”.

Volano gli incassi nell’affollato weekend al Togay: oltre il 20% in più rispetto all’anno scorso. «Un risultato molto importante – spiega il direttore Giovanni Minerba – che va al di là delle pur ottimistiche aspettative e che, ci auguriamo, possa migliorare ancora di più nei prossimi giorni. Un dato positivo e in controtendenza rispetto al preoccupante calo degli incassi ai botteghini dei cinema italiani».

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E se la settima arte si può considerare uno specchio riflettente dell’evoluzione della società contemporanea, allora varie opere presentate in questi primi giorni mettono in evidenza una tematica di stretta e urgente attualità: la famiglia lgbt. Famiglia d’elezione, quella queer, estesa e mobile, in lotta con il nefasto stereotipo di nucleo sterile come nel commovente film drammatico d’apertura Any Day Now (Da un giorno all’altro) di Travis Fine, tratto da una storia vera, che dimostra come già nel 1979 la questione delle adozioni gay arrivasse a essere discussa appassionatamente nelle aule di tribunali. Ha colpito al cuore gli spettatori, trascinati in un applauso lungo e convinto, la vicenda del quattordicenne down Marco di cui la battagliera drag queen Rudy Donatello (uno strepitoso Alan Cumming che ci mette davvero anima e corpo) cerca di ottenere la custodia insieme al fidanzato Paul, viceprocuratore distrettuale, per evitargli il riformatorio reso necessario per l’abbandono della madre tossicodipendente, vicina di casa dello stesso Rudy.

Ma le famiglie alternative di oggi sono anche quelle con figli nati da genitori omosessuali, come racconta con naturalezza sorprendente la bimbetta all’amica sarcastica nel delizioso corto francese ‘Ce n’est pas un film de cow-boys’ di Benjamen Parent o quelle che reclamano sacrosanti civili diritti maturati in decenni di convivenza come nel doc Vorrei ma non posso di Enzo Facente.

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Il modello di famiglia che emerge è in generale più conflittuale: quella che, soprattutto nel Medio Oriente dell’interessante focus Mezzaluna Rosa, cerca di espungere l’elemento gay in nome di acritici condizionamenti religiosi e culturali. Come nella discreta commedia drammatica Mixed Kebab di Guy Lee Thys ambientata in un’inedita Anversa in cui il matrimonio combinato di Ibrahim con una cugina viene mandato a morte con tanto di minacce di morte del fratello fanatico che scopre l’infamante rapporto sentimentale fra Ibrahim e il bel Kevin che lo fa lavorare nel bar dell’amorevole mamma. Similmente, nel passabile thriller israeliano-statunitense Alata (“Oscurità”) diretto da Michael Mayer, la scoperta dell’omosessualità dello studente palestinese Nimr da parte del fratello estremista funge da bieco ricatto, costringendo Nimr alla fuga che rischia di separarlo per sempre dal suo grande amore Roy (l’attore Nicholas Jacob ci ha spiegato di essere etero come il suo partner nel film, Michael Aloni, con cui non si è sentito affatto a disagio, anche nelle scene d’intimità).

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A Occidente la situazione è meno problematica ma soprattutto le nuove generazioni sembrano meno interessate a riconoscimenti giuridici quanto più a cercare equilibri sentimentali nell’ambito dell’amicizia: nel giovanilista e un po’ fatuo El sexo de Los Angeles di Xavier Villaverde si ipotizza un’utopistica unione a tre, due ragazzi e una ragazza, avvenenti e sostanzialmente aproblematici, con tira e molla sentimentali viziati da psicologismi semplicistici. Nell’interessante ma un po’ involuto I Want Your Love di Travis Mathews la vera famiglia del malinconico Jesse è quella formata dai suoi amici di San Francisco che sta per lasciare, dovendo trasferirsi senza convinzione nella più provinciale Columbus in Ohio. Qui la peculiarità sta nella rappresentazione esplicita dell’intimità sessuale, come in Shortbus (altro tema ricorrente in quest’edizione, l’erotismo esplicito: primi piani di genitali ed eiaculazioni nonché un certo rifiuto di quell’igienismo asettico tipico di certa pornografia queer, tra letti sfatti e ascelle odorose) ma la sceneggiatura andava corroborata con qualche iniezione narrativa più sostanziosa. Delude senza appello l’altro film di Mathews, codiretto insieme a James Franco, il pretestuoso Interior. Leather Bar. Anche qui si cerca di utilizzare «il sesso come mezzo espressivo», per dirla con James Franco, ma dei 40 minuti tagliati di Cruising si ricostruisce solo la scena del titolo con un blowjob senza censure e ciò che resta è una riflessione un po’ banalotta sul disagio del protagonista etero, Val Lauren, con occhioni sgranati nell’assistere alla rappresentazione di sesso gay esplicito, e alcuni giochini metacinematografici non particolarmente originali (Lauren legge la sceneggiatura appoggiato a un muro in cui c’è proprio scritto che ‘Val Lauren legge la sceneggiatura appoggiato a un muro’).

Il migliore film del concorso resta per ora il polacco In The Name Of di Malgoska Szumowska, rigoroso dramma d’autore, laconico e suggestivo, sul mondo rurale in cui vive Adam, un parroco segretamente gay (un palpitante Andrzej Chira), al servizio di una comunità di giovani problematici. L’innamoramento ricambiato per un giovane angelico farà vacillare la sua fede e il senso stesso della sua missione mentre l’autorità religiosa inizia a insospettirsi. La scena chiave del film si riallaccia al tema cardine della famiglia: Adam vistosamente ubriaco si confessa via Skype alla sorella che si trova a Toronto, rivela la propria omosessualità, cerca conforto per allieviare il tormento, si trova abbandonato perché la sorella non vuole ascoltarlo e si sconnette.