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‘YOU THE LIVING’: SIAMO TUTTI COSÌ DIVERSI

Sola, triste e un po’ matta: ecco la gente di oggi per il geniale Roy Andersson nel suo pazzoide e strepitoso ‘You The Living’. E una rockstar forse gay preferisce suonare che andare con la neomoglie.

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A Cannes, durante una proiezione al Palais, il pubblico svedese – soprattutto donne – si spanciava in risate isteriche, a stento trattenute, un po’ triviali. Ed esponente del ‘trivialismo’, tra neorealismo e cinema dell’assurdo, è il geniale regista Roy Andersson di ‘You The Living’ (‘Gioisci dunque, o vivente!’), finalmente in uscita nel nostro paese praticamente senza pubblicità: lo distribuisce l’acuta Ladyfilm, sempre attenta ai titoli cult per cinefili accaniti. Il titolo è tratto dalle ‘Elegie romane’ di Goethe – il verso continua con: ‘Di questo posto riscaldato dall’amore prima che il fatale Lete bagni il tuo piede fugace!’- ed è il primo film del regista svedese che viene distribuito in Italia. Bizzarro folletto sessantaquattrenne da trentasette al lavoro ma con all’attivo solo quattro film, ha firmato quel piccolo capolavoro surrealista sul senso di colpa individuale e collettivo che è il visionario ‘Canzoni dal secondo piano’, vincitore del Premio della Giuria a Cannes nel 2000.

Lo stile di Andersson è estremamente particolare: costruisce le sue scene – quasi sempre in studio, non a caso arriva dalla televisione – come tableaux vivants sofisticati dai colori smorti con una predilezione per il verde acqua, che si riempiono e svuotano di persone (le scene madri sono sempre di massa, spesso girate col grandangolo). Le sue ispirazioni pittoriche sono Millet e Van Gogh mentre ogni suo film è incentrato su un tema filosofico preciso: nel buñueliano ‘You The Living’, girato interamente nello Studio 24 di Stoccolma tranne che per una scena, su set anche di grandi dimensioni, si affronta la tragicità della vita quotidiana, nelle sue piccole angherie di tutti i giorni, attraverso siparietti divertenti (un delirante dialogo su una panchina, l’acquisto di una moquette, un

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improbabile processo) e con un umorismo nordico, acre e a tratti raggelante che ricorda un po’ ‘Il grande capo’ di Von Trier.

Tra i personaggi di questa disperata ronde in marcia (con marcetta) verso l’Apocalisse c’è anche una rockstar forse gay, curiosamente simile a Robert Smith dei Cure che, il giorno del matrimonio, disdegna la mogliettina pur di suonare la sua adorata chitarra scatenando l’entusiasmo dei fan che si accalcano alle finestre di casa sua. «In una raccolta di vecchie poesie islandesi, chiamata ‘The Poetic Edda’ c’è un proverbio che dice: ‘L’uomo è la delizia dell’uomo’. Mi piace l’idea che l’uomo non sia solo sulla Terra ma che dipenda dagli altri» sostiene Andersson. «Tuttavia, se l’essere umano è la gioia degli altri, è anche la fonte dei suoi problemi e dolori. L’uomo affascina l’uomo: è così che ho interpretato questo conciso pezzo di saggezza millenaria e l’ho adottato come elemento nel film».

Con musiche originali ispirate al jazz, a Mozart e agli inni russi, attraverso soluzioni visive davvero intriganti – case che si spostano, aerei che riempiono i cieli, cagnolini che rischiano una fine orrenda – il film di Andersson è un ritratto spietato della condizione umana reso quasi mite da un’ironia sottile che sta dalla parte dei diversi e

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degli emarginati (chi l’ha visto il poveretto al bar?) destinati a non avere alcuna possibilità di riscatto sociale.

E se lo splendido finale rappresenta una sorta di seguito del mirabile ‘Canzoni dal secondo piano’ – qual è la responsabilità dei media di questa sorta di allucinazione collettiva che è il caotico mondo odierno? – la nota di speranza è una sola: un trombone ci salverà.