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Spero Povia non vinca. Ma noi rischiamo di aver già perso

Manifestare a Sanremo è l’ennesimo sintomo di un integralismo omosessuale di cui sempre più le associazioni gay si fanno promotrici. Finché il movimento lgbt avrà questi dirigenti non cambierà nulla.

La vitalità di un movimento la si misura dalle iniziative che costruisce, dai progetti che mette in campo, dalle manifestazioni cui da vita, dalle priorità che sceglie.

È per questo che sono sbigottito che per una indelicata, diseducativa ma orecchiabile canzonetta di Sanremo una parte del movimento lgbt (con le due associazioni nazionali in testa, però: Arcigay e Arcilesbica) decida di scendere in piazza, indicendo addirittura una manifestazione nazionale di protesta e per la dignità di tutti gli amori (cosa sacrosanta, perdio!), organizzando conferenze stampa, spendendo risorse umane e finanziarie, mobilitando volontari.

Non bastava la campagna pubblicitaria che a Povia abbiamo già

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fatto in questi mesi, aiutandolo a conquistare la vetta della classifica italiana di iTunes?  Non bastava la scenetta della serata inaugurale, dove all’intervento di uno straordinario ed emozionante Roberto Benigni nulla occorreva aggiungere, evitando i fischi che inevitabilmente sarebbero saliti da una platea venuta lì non ad ascoltare prediche?  Evidentemente no. Serviva altro.

E così, sabato, tutti i gay, le lesbiche, i bisessuali, i transessuali, i

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loro amici ed i loro genitori italiani sono convocati a Sanremo, per la manifestazione nazionale dal titolo carino "Sem’innamoro": così carino, da apparire del tutto sprecato. Per una canzonetta. Per una canzonetta di Sanremo. Indelicata e diseducativa quanto volete. Ma orecchiabile. Orecchiabilissima.

Oggi Walter Siti, uno dei più grandi scrittori italiani, omosessuale dichiarato, per me Povia poteva cantare?

Lo dico con la tristezza nel cuore, perché in quelle associazioni sono cresciuto, ho militato, ho speso molti miei anni, e conosco l’entusiasmo, la capacità, la straordinaria generosità di migliaia di volontari che ogni giorno dedicano gratuitamente energie e tempo per far sì che – semplicemente –  chi verrà dopo viva meglio la

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propria omosessualità: ma oggi, questo movimento mi pare solo alla ricerca disperata di qualunque pretesto per uscire fuori sulla stampa, per conquistare visibilità mediatica, in nome di un vittimismo ad ogni costo e di una sorta di "integralismo omosessuale" che la gente comune e con loro tanti, tantissimi gay e tantissime lesbiche, non capiscono più. Col rischio di amplificare le cose, di vedere la discriminazione dove non c’è, di accusare di omofobia chi non lo è, di farsi terra bruciata intorno, di farsi nemici gli amici di sempre, di distruggere ogni possibile alleanza, di essere sempre più isolato, sempre meno compreso, sempre meno popolare. Ad iniziare dall’isolamento che il movimento lgbt ha ottenuto con il risultato elettorale, per proseguire con il caso dello steward di questa estate e il litigio con un nostro alleato storico – il quotidiano La Repubblica – , e poi nel rapporto con i Didorè dei ministri Rotondi e Brunetta e nella vicenda delle dichiarazioni omofobe della senatrice Binetti e più in generale nel rapporto con il Partito Democratico. Per non citare la vicenda del ragazzo romano suicida, di cui Arcigay si affrettò a dire che era omosessuale, pur di conquistare qualche titolo di giornale. O per non ricordare l’incapacità di mettersi d’accordo neppure sul luogo del Pride Nazionale, con Arcigay a pochi altri che autonomamente – e sempre alla ricerca della propria visibilità a ogni costo -, lo convocano a Genova.

Non ci siamo. O si capisce che si deve voltare pagina, o neppure uno spillo – in termini di conquiste legislative e sociali – passerà in questo paese. Tanto più in questo paese, dove le richieste vanno poste nel verso giusto, dove i radicalismi mai hanno trionfato, dove il dialogo e la capacità di trovare soluzioni mediate sono l’unica strategia possibile. Ma con questa dirigenza nazionale, tutto questo è ormai ineluttabilmente impossibile.

PS: voglio solo sperare che Povia non vinca. Se ciò dovesse davvero succedere, quella vittoria – con tutte le sue nefaste conseguenze, in termini di immagine e culturali –  avrebbe solo un responsabile, il cui nome non sarebbe certo Paolo Bonolis.